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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

David Foster Wallace, ritratto di ragazzo esilarante e buio, intelligentissimo, disarmato e disarmante

Le date sono tre: 1996, 2008, 2016; il gioco richiede di sceglierne una. Nel 1996 David Foster Wallace pubblicò il romanzo “Infinite Jest” e accettò di essere seguito negli ultimi giorni del relativo tour promozionale dallo scrittore David Lipsky, per un’intervista destinata a “Rolling Stone”. Nel 2016, oltre a celebrarsi il ventennale dell’uscita del romanzo, esce in Italia il film “The End of the Tour”, un biopic tratto dal libro in cui, quindici anni dopo, Lipsky ha riversato quella conversazione itinerante, rimasta fino ad allora inedita (“Come diventare sé stessi”, trad.it. di Marina Testa, minimum fax, 2011). Nel 2008, Wallace è morto, per propria mano.
Se si sceglie la data del film, probabilmente non si sbaglia di molto. È la data del nostro presente, in cui i testi di Wallace continuano a sopravvivere a lui e a farci interrogare sui principali temi della contemporaneità. Il film è bello, emozionante, ben recitato da Jesse Eisenberg (Lipsky) e Jason Segal (Wallace; il regista è James Ponsoldt): dà una credibile immagine dell’incontro fra uno scrittore trentenne agli esordi e uno scrittore che ha quattro anni, due libri e legioni di lettori più di lui. Il suo libro in promozione è un romanzo di oltre mille pagine, ancora più complesso del suo autore, ed è già un successo. Agli occhi di Lipsky, Wallace diventerà un fratello maggiore che «ce l’ha fatta», ma intanto è soprattutto una specie di rockstar. È esilarante e buio, intelligentissimo e disarmato, disarmante. Tutte le ragazze, compresa la girlfriend di Lipsky, sono innamorate di lui e parte del suo fascino è dovuto anche al modo in cui si pone il problema del piacere agli altri. Come dire che il personaggio di Wallace (nel film, nel libro di Lipsky, ma anche sulla scena americana della sua epoca) ha come caratteristica quella di interrogarsi su cosa sia l’essere personaggio, in un’epoca e una società totalmente pervase dai media.
Lo testimonia anche l’ottima biografia pubblicata pochi anni fa da D. T. Max ( Ogni storia d’amore e una storia di fantasmi, Einaudi Stile Libero). Questo tratto poteva rendere Wallace anche incomprensibile, se non intollerabile: è su questo che l’intervistatore ha uno scontro con lui ed è per questo che nel 2010 Bret Easton Ellis, leggendo il libro di Lipsky, emanò una preoccupante serie di tweet di postumo e violento rancore contro Wallace. Già, perché nel 2008 Wallace era morto, a causa della recrudescenza di una depressione annosa, che la farmacologia non riuscì più ad arginare.
È da allora che il fantasma di Wallace percorre il castello della letteratura planetaria, con il pathos della sua scabrosa testimonianza. Se si sceglie questa data ci si accomoda tra una folla emozionale, con le sue reazioni pavloviane, alternamente pietose, commosse, amorose, annoiate, irridenti.
Del libro di Lipsky, nel film finiscono soprattutto, e fedelmente, proprio i rovelli di Wallace nei confronti della sua immagine pubblica, della solitudine combattuta dalla letteratura, della falsità e della sincerità. Ma il film offre esso stesso una via di uscita dai possibili equivoci. Parlando a Lipsky del desiderio e del timore di avere figli, Wallace all’improvviso butta lì: «Penso che scrivere libri sia un po’ come crescere figli. Però devi stare attento, è un bene desiderare che un figlio si faccia strada, ma è brutto desiderare che la sua fama si rifletta su di te». Wallace qui sta parlando non di come diventare sé stessi (può lasciarlo pensare la sintetica versione italiana del titolo di Lipsky) ma di come scrivere libri famosi senza diventare famosi, e come non annettere nessun compiacimento personale al fatto di essere uno scrittore, e di successo (mentre c’è chi si compiace persino di essere uno scrittore di insuccesso). «Non mi dà fastidio comparire su Rolling Stone, ma non voglio comparire su Rolling Stone come uno che non vede l’ora di finire su Rolling Stone». Erano pose anche queste? C’è chi lo ha creduto e lo crede, lo stesso Lipsky vacilla; ma alla fine non importa davvero molto. Allo spettatore si apre un bivio: sceglie il padre o il figlio? L’autore, con la biografia della sua persona e del suo personaggio, oppure il libro? Si ferma al 2008 o risale al 1996?
Pietismi effimeri la figura di Wallace ne ha raccolti abbastanza. Sarebbe bello se un film intelligente e delicato nella propria pietas guadagnasse invece altri lettori alle sue opere.
Infinite Jest è rimasto il suo capolavoro (l’edizione italiana è stata eroicamente tradotta da Edoardo Nesi, con Annalisa Villoresi e poi Grazia Giua, per Fandango; ora è pubblicata da Einaudi Stile Libero). Fra l’altro parla esattamente del rapporto tra la persona e l’infinito intrattenimento che gli viene offerto ossessivamente dai media.
La cultura dell’autore era vorace, minuziosa e multidisciplinare. Filosofia, logica, linguistica, letteratura, matematica (a “David Foster Wallace e la matematica” è dedicato l’ultimo numero della rivista Lettera Matematica, del gruppo Pristem dell’Università Bocconi), sport, televisione, medicina, psichiatria e una quantità di altri settori su cui si documentava maniacalmente all’occorrenza: da ultimo, la contabilità fiscale. A tale cultura univa una dote mimetica: la capacità di immedesimarsi nella mentalità e nel linguaggio degli altri. La scrittura, di fiction e di non fiction, gli si era presentata come il medium migliore per rappresentare i paradossi della condizione contemporanea, con l’obiettivo ambizioso di lenirne gli effetti sull’essere umano del suo lettore. Infinite Jest non parla solo dei rischi mortali dell’intrattenimento ma li riproduce nella sua stessa forma, che elude la tentazione di essere un intrattenimento perfetto e perpetuare così ogni equivoco. Nella scrittura chiunque può ritrovare ciò che della persona può davvero conoscere. La persona è morta, il personaggio vive di omaggi che, almeno nei casi di Lipsky, Max e di questo film, risultano opportuni e molto rispettosi. I libri sono tutti lì.