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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

Quella volta che con Bowie ci inventammo un artista americano morto

La brutta  notizia della tragica e prematura morte di David Bowie mi ha indotto a tirar fuori i miei diari. Lo conobbi il 22 febbraio 1994, a una cena di redazione della rivista d’arte Modern Painters. Ecco cosa scrissi: «Cena Modern Painters questa sera al The Ivy. Presente una decina di redattori, tra i quali David Bowie. Ho chiacchierato a lungo con lui. Non beve, ma ha fumato molto. È stato cortese, ma mi è parso poco a suo agio. Del resto, è naturale che in quell’ambiente si sia sentito così. Qualcuno mi ha raccontato che Bowie avrebbe voluto portarsi dietro un amico a fargli da scudo, ma alla fine ha desistito. Aveva il pizzetto. Da vicino il suo viso mi è parso alquanto segnato, con vistose borse sotto gli occhi. È paurosamente magro – ormai è sulla cinquantina. Se ripenso ai miei anni di università… e a quanto spesso ho ascoltato i suoi primi album… Che strana è la vita!».
Bowie amava il mondo dell’arte. Era un intellettuale autodidatta, un lettore famelico e insaziabile. Mi ha fatto pensare a Paul Klee – altro autodidatta – e al concetto da lui sviluppato di “continuità interrotta” che spiegava un aspetto curioso delle nostre vite – risolvendo quegli schemi vaghi, quegli incontri casuali e quelle connessioni marginali che si palesano soltanto in retrospettiva, dopo che è trascorso molto tempo – una sorta di continuità retroattiva, una versione cronologica dei sei gradi di separazione, presumo.
I miei diari sono accurati: nel 1971, nella mia orrenda stanza del mio orrendo appartamento da studente, ascoltavo e riascoltavo l’album Hunky Dory in una sorta di estasi ipnotica. Se qualcuno mi avesse detto che l’avrei (un po’) conosciuto gli sarei scoppiato a ridere in faccia. Ed ecco intervenire la continuità retroattiva: mi proposero di entrare a far parte della redazione di Modern Painters e mi trovai seduto accanto a lui. Nelle cene di redazione da lì in poi prendemmo l’abitudine di cercare la reciproca compagnia perché eravamo gli ultimi arrivati, e nel corso degli anni ci vedemmo in molte occasioni. Bowie aveva dato vita a una piccola casa editrice denominata “21” che pubblicava libri d’arte, e nel 1998 editò la mia finta biografia Nat Tate: an american artist 1928- 1960.
La sua vita come redattore, critico d’arte e scrittore per Modern Painters, artista, collezionista, editore (e burlone) è passata fatalmente in secondo piano rispetto alla fama di icona culturale globale, ma per lui fu molto importante, credo. Fu una presenza affabile e riservata nelle normali riunioni di redazione della rivista e quando io lanciai l’idea d’inventare di sana pianta un artista mai esistito, Bowie disse che il piano avrebbe funzionato meglio se si fosse concretizzato in un libro.
E così fu. Inventai un “artista” americano morto, lo chiamai Nat Tate e ne scrissi la biografia. Poi la redazione di Modern Painters e “21” trasformarono il testo in una piccola monografia. Fu Bowie a pubblicarla, a organizzare un ricevimento per il suo lancio (nel 1998) nello studio a Manhattan di Jeff Koons – suo intimo amico – e a leggerne alcuni brani in modo del tutto imperturbabile al bel mondo convenuto appositamente a New York.
Nel 2001, quando Modern Painters fu venduta, il nuovo proprietario si disfece di quasi tutta la redazione, me compreso e, inopinatamente, dello stesso David Bowie. La fine della vecchia rivista segnò anche la fine dei nostri contatti. Il decennio del nostro rapporto si è concluso a New York, poco prima del suo 60° compleanno. Una sera ci siamo ritrovati a una festa in un albergo di TriBeCa. L’ho visto scendere da un taxi, l’ho salutato, vagamente sorpreso che utilizzasse quel mezzo di trasporto, e gli ho chiesto se avesse mai avuto problemi a circolare in città. No, per niente, mi ha risposto, usava taxi e metropolitana senza problemi. «Però, mi porto sempre appresso uno di questi» ha aggiunto, mostrando un quotidiano greco. Chi lo vedeva, non poteva fare a meno di chiedersi se fosse davvero David Bowie ma, notando quel giornale greco, giungeva alla conclusione che no, non poteva trattarsi di lui. Che idea brillante, ricordo di aver pensato. Semplice ed efficace, e per taluni aspetti anche naturalmente elegante e di classe: un espediente banale e al contempo di grande genialità, tipico di quest’uomo affascinante.