Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

Clemente Rebora, il poeta sacerdote

In una delle più belle poesie di uno dei maggiori poeti del Novecento italiano, Clemente Rebora, c’è un’immagine misteriosa. È un componimento del 1920, intitolato Dall’imagine tesa, che compare come ultimo testo della raccolta Canti anonimi, usciti per il Convegno nel 1922: il secondo libro dopo i Frammenti lirici del 1913. Il trentacinquenne Rebora non aveva ancora vissuto «la scelta tremenda», ovvero la crisi spirituale che l’avrebbe portato un decennio dopo a prendere i sacramenti e poi, nel 1936, a farsi sacerdote: era ancora un «professoruccio filantropo», che però aveva ampiamente sofferto il «martirio inimmaginabile» della guerra, il grave trauma nervoso provocato dall’esplosione ravvicinata di un obice da 305 e diagnosticato come «mania dell’eterno», nonché il conseguente «sfacelo interiore e fisico».
«Dall’imagine tesa / Vigilo l’istante / Con imminenza d’attesa…». È una colata magmatica, secondo la metafora utilizzata da Pier Vincenzo Mengaldo, nel tipico stile espressionistico reboriano: una sola lassa di 26 versi liberi brevi che compongono un unico periodo sintattico (sia pure ricco di segni interpuntivi) e con una pausa a metà del testo (marcata dai due punti), che determina un cambiamento di passo. Nella prima parte prevale un andamento a ritornello con la triplice, delusa, ripetizione del «Non aspetto nessuno»; mentre nella seconda si impone, per ben sei volte, l’anafora di «Verrà», con frequenti rime baciate, quasi a smentire il senso di frustrazione precedente, aprendo alla speranza e creando un effetto sorpresa sonoro e visivo. È una poesia sull’attesa, dominata da un’idea di tensione, di sospensione, nell’«imminenza» di qualcuno e/o di qualcosa che potrebbe arrivare.
Chi aspetta il poeta? L’amico Enzo Fabiani ricordò che posto di fronte alla domanda se quella poesia andasse letta «in chiave anagogica, cioè come un’attesa della fede di Dio…», Rebora rispose divertito: «Ma no, la scrissi mentre aspettavo una ragazza!». Non è un mistero che il poeta, in quel periodo, vivesse nell’ansia di rivedere l’amata Lydia Natus, la pianista russa nonché «soavissima baccante-maddalena». Con lei, la «lucciola» che era stata sua segretaria e collaboratrice (nelle traduzioni) oltre che infermiera, aveva condiviso il concepimento di un figlio poi abortito per ragioni di salute nei mesi del fronte. Da Lydia, Clemente si era separato, dopo almeno cinque anni di convivenza in via Tadino 3, nel dicembre 1919. Ci sono diverse lettere che attestano quel filo di speranza: il desiderio di rivederla e l’ansia dell’attesa.
Un saggio di Roberto Cicala e Valerio Rossi ( L’attesa di Rebora ), che appare nel nuovo numero della rivista «Aevum» (Anno 89, 2015, fasc. 3, pubblicata da Vita e Pensiero), si concentra sulla discussa «attesa tesa», si direbbe giocando sull’allitterazione, del componimento conclusivo dei nove Canti anonimi. I primi tre versi evocano pensieri e stati d’animo che Rebora andava esprimendo, proprio in quegli anni, anche per lettera agli amici: «Sono con la vita più che mai inconclusa e bisognosa invece di imminenza» (cartolina postale ad Antonio Banfi, datata 7 settembre 1920), pensieri carichi di valore simbolico e di afflati metafisici. Dunque è ovvio che il dato di realtà occasionale («aspettavo una ragazza») non esclude affatto una lettura «superiore», più prossima a certe inquietudini e urgenze che il poeta lascia trapelare, appunto, nelle lettere coeve, dove si affaccia il motivo di una rivelazione imminente: «Bisogna prepararsi alle più dure prove, rimanendo certi, anche nel disastro personale, del fine divino della nostra vita» (20 novembre 1921). Ovvio che qualcuno abbia privilegiato una lettura della poesia in chiave essenzialmente spirituale e che altri si siano attenuti all’occasione «mondana» suggerita dall’autore e peraltro in parte da lui stesso minimizzata in circostanze successive. Per esempio quando commentò, in anni più tardi, «Dall’immagine tesa» con queste parole: «È la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes Animae». Ma si sa quanto Rebora assuma su di sé la contraddizione, inglobando mondanità e trascendenza, secondo quell’ideale poetico commisto «di sterco e di fiori».
Fanno notare Cicala e Rossi che lo stesso «ristoro» cui si accenna in questo testo compare altrove esplicitamente accostato a Lydia: del resto, l’amore per una donna che assume significato salvifico o mistico è tutt’altro che una novità reboriana, basti pensare alla lunga tradizione poetica italiana dallo stilnovo in giù. Senza dire che l’ambiguità o doppiezza dell’amore è ben presente anche in Tagore, il poeta anglo-indiano che Rebora conobbe, stimò e tradusse. «Mi sbatto nel contrasto tra l’eterno e il transitorio» è una sua frase molto precoce, del 1911. Ci si è arrovellati nel tentativo di identificare fisicamente l’oggetto «transitorio» che il poeta qualifica come «imagine tesa».
C’è chi vi ha scorto un’icona russa dono della stessa Lydia e presente nell’appartamento di via Tadino dove i due avevano convissuto; altri hanno pensato a un dipinto dell’amico Furlotti, altri a un crocifisso (magari inserito nel contesto di una chiesa o di una cella), altri a uno specchio o a una pura rappresentazione mentale. Ebbene, come segnalano Cicala e Rossi, un cartiglio inedito emerso di recente dall’archivio reboriano sembra sciogliere l’enigma o più cautamente contribuire a chiarire il mistero dell’«imagine».
Si tratta di un foglietto datato sabato 25 ottobre 1930 in cui Rebora, che dopo pochi giorni sarà affidato dal cardinale Schuster al collegio Rosmini di Stresa, ricorda un singolare effetto di luce della sua camera: un effetto che creava, secondo le parole del poeta, una sorta di «Ostia Candida aureolata di quattro raggi cadenti essi pure, a guisa di croce». Con una precisazione: «Da tempo pensavo a questo: l’imagine la vedevo la sera a schermo sulla tendina di mussola della mia finestra in via Tadino, determinata da una luce nell’appartamento dirimpetto; e me la fece notare la prima volta Dina Colombo». Dina è un’allieva del futuro sacerdote, ma quel che conta è che l’«imagine» spirituale e intima evocata nella poesia trova un riscontro oggettuale e domestico. Ancora una volta la poesia di Rebora, anche quella più apparentemente astratta, nasce da un elemento reale: la mussola tesa, la tenda su cui la luce proietta un’immagine, una sorta di «ombra accesa» che annuncia un compimento, la soluzione imminente della «scelta tremenda» intravista nella prima lontana raccolta. Ma la soluzione non sarà mai risolutiva, per uno spirito inquieto come quello di Rebora. Neanche quando, ormai malato nella sua spoglia cameretta di Stresa, scriverà i Canti dell’infermità : «Tutto è al limite, imminente: / per lo schianto basta un niente». È il 1956 e l’attesa è ancora lì, tesa come trent’anni prima. Don Clemente morirà, a 72 anni, il primo novembre 1957 dopo un lungo calvario di malattia. Montale scrisse: «È un conforto pensare che il calvario dei suoi ultimi anni – la sua distruzione fisica – sia stato per lui, probabilmente, la parte più inebriante del suo curriculum vitae». L’attesa, l’imminenza, ancora una volta.