Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 09 Martedì calendario

Il calcio libero e colto di Eusebio Di Francesco

Un po’ istruttore, un po’ allenatore. Sassuolo è la realtà, il calcio spagnolo la fantasia. Eusebio Di Francesco, classe ’69, pescarese, nella vita calcistica ha già fatto tutto: calciatore, team manager, ds/consulente di mercato, allenatore. Idee (non solo calcistiche) chiare e sani principi (non solo calcistici).
Eusebio, Spalletti ora allena la Roma: è più tranquillo?
«Sono contento per Luciano, ma perché più tranquillo?».
Sappiamo che non le piace parlare di un suo futuro alla Roma.
«Confermo».
Ma l’avevano contattata da Trigoria?
«Non lo so».
Ci ha messo un po’ a capire che il suo mestiere fosse allenare.
«Non volevo farlo. Ho cercato di staccarmi dal calcio. Ds, team manager, nessuno di questi ruoli mi appagava fino in fondo».
Cosa non c’è di Zeman nel suo calcio?
«Ho molta più cura della fase difensiva. Gioca più basso? No, leggo la palla. Quando questa si scopre i difensori scappano verso la porta; quando è coperta o viene scaricata dietro noi, o risaliamo o stiamo fermi. Non ci abbassiamo. Voglio che la mia squadra sia un blocco unico».
Ha definito Guardiola un modello. Ma il suo calcio ha poco in comune con quello di Pep?
«Ovvio: se facessi il tiki taka con il Sassuolo sarei un pazzo. Lui è uno che dà l’impronta, per questo è bravo».
Spalletti ha detto che lei è un bene per il calcio italiano.
«Mi gratifica. Me lo ha ripetuto anche personalmente».
Lo studiava ai tempi della Roma?
«Lui ogni tanto mi chiedeva qualcosa, era curioso: su cosa si faceva con Zeman, che tipo di movimenti. Non ero mai io ad andare da Luciano. Non mi sono mai permesso».
Cosa la colpiva del suo modo di lavorare?
«La personalità, ciò che trasmetteva ai giocatori. Sa trasmettere le proprie idee, sa farsi capire con facilità».
Lei si sente allenatore o ancora è nella fase di istruttore?
«Io mi sento allenatore/insegnate. Mi piace trasmettere determinati concetti e veder migliorare i miei ragazzi. Anche i più vecchi. Esempio: i preparatori dei portieri di oggi, che sono i portieri di ieri, quando giocavano erano scarsi, ma nella ripetitività del gesto che fanno nel calciare sempre in porta, oggi sono diventati ottimi tiratori. Quindi non c’è età per migliorare».
Se lei allenasse il Real, si porrebbe allo stesso modo con i calciatori?
«Non può essere lo stesso, ma i concetti di gioco e l’idea di lavorare sulla palla può essere trasmessa a qualsiasi livello, in qualsiasi squadra. Lo dimostra anche il Napoli di Sarri: un allenatore quando fa vedere ai propri giocatori delle competenze e della conoscenza, loro sono i primi a riconoscerle e a seguirli. Se hai idee, le puoi portare al Real Madrid e al Sassuolo, o al Capri. L’importante è avercele».
Nel calcio italiano nota idee interessanti?
«Siamo migliorati tanto nel corso degli ani. Oggi cerchiamo il gioco dal basso, calciamo meno il pallone lungo. Sarri, Giampoalo, Allegri, Spalletti, Sousa, Gasperini, in B Juric, Drago, Oddo, ce ne sono tanti che, quando vedi le loro squadre, noti sempre qualcosa, un’idea interessante. Capisci che la prestazione non nasce il giorno della partita, ma dal primo allenamento che si fa in settimana. Questo lo ha detto anche Spalletti, che parla di principi di gioco».
Tanto di diverso da quando giocava lei.
«All’epoca si viveva di più su qualità individuali, c’era Zeman più avanti degli altri. Zdenek, con Sacchi, sono riusciti a trasmettere certi input».
C’è un giocatore che le piacerebbe allenare, perché rappresenta la tua idea di calcio?
«Pogba. Mi ispira in maniera impressionante da un punto di vista fisico e tecnico. È completo. Pjanic è un altro giocatore che a me piace tantissimo».
Il nostro calcio deve essere fatto da italiani?
«Non lo penso, a Sassuolo è diventata una scelta societaria. Credo sia giusto far giocare i giocatori bravi, quelli che hanno qualità non perché siano giovani ed italiani. Per me possono essere stranieri, ma bravi».
Si pensa, però, che lo straniero tolga il posto ai nostri.
«Qualche volta è accaduto. Ma il problema del calcio non è questo. È nei settori giovanili. Il passaggio più importante per me sarebbe inserire i campionati con le seconde squadre, che facciano da tramite con la prima squadra. Come in Spagna».
Così i giocatori si abituano prima al professionismo.
«I ragazzi vivono sempre un contesto diverso, specialmente in ambienti come Roma, dove ti fanno sentire giocatore vero anche se non lo sei. I giovani devono imparare a lottare per un contratto, pensare di lavorare per portare da mangiare a casa. Devono abituarsi a combattere per uno stipendio. In serie A leggo di contratti prolungati fino al 2020, al 2025, al 2022. Se invece vai ad intervistare qualche giocatore di Lega Pro, si parla di due anni al massimo. Solo così passi dall’aspetto ludico a quello lavorativo/professionale. E si diventa uomini».
L’abbiamo sentita parlare di cultura nel calcio. Si è messo a distribuire libri ai suoi giocatori?
«Anche. Spesso ai miei ragazzi faccio qualche citazione, gli do consigli sulle letture. Ritengo che la conoscenza sia libertà di pensiero e i giocatori con maggiore cultura sono quelli che recepiscono meglio i messaggi. Il talento è un’altra cosa e serve. Ma se tu hai talento ed hai anche cultura sei un top player».
Anche in questo il nostro calcio è indietro?
«In Germania abbinano lo studio al calcio. Noi in Italia diciamo: “O giochi a calcio o vai a scuola”. Questa è una cosa su cui dovrebbe lavorare la Federazione insieme con lo Stato, le istituzioni e le scuole, per poter dare la possibilità ai ragazzi sia di poter andare a giocare a calcio che allo stesso tempo studiare. Fare in maniera tale da abbinare i due mondi. Perché sono pochi ad arrivare in serie A, tutti gli altri che fanno?»
Gli operai?
«Ben venga anche fare l’operaio, ma saranno pronti venendo dal mondo del calcio?».
Cosa pensa di quello che è successo tra Sarri e Mancini? L’allenatore non dovrebbe essere un esempio?
«È importante che si sia arrivati alle scuse, è vero, dobbiamo dare l’esempio. Ma questo non giustifica tutti gli altri a sparare contro di loro in maniera eccessiva o farne un caso nazionale».
Di Francesco è un tipo social?
«No. Per me possano portare dei messaggi spesso anche non positivi, o travisati. Mi piace più la comunicazione diretta, poter guardare in faccia le persone. Usando i social è come lasciare una donna per messaggio. Li reputo superficiali, ma non li condanno. Trovi un calciatore introverso e per lui è più semplice dirti stronzo via social che di persona».
Un libro in più aiuta a non essere omofobi e razzisti?
«Nettamente, apre la mente. Io compravo Panorama, ma anche l’Espresso. Bisogna allargare le visioni»
Quando si parla di ambiente romano, cosa si vuole intendere, che ci sono troppe pressioni?
«Io a Roma mi sono trovato benissimo. Ho avuto rispetto per tutti. Lì ci sono pressioni, ma servono per non abbassare le motivazioni, per mantenere alta l’attenzione. Magari in altri ambienti più tranquilli, anche inconsciamente, tendi ad abbassarla».
Quindi che tipo di allenatore serve a Roma per vincere?
«Serve un’unità di intenti e una progettazione, una società. Si deve credere in un allenatore, oltre le difficoltà, perché è lì che si vedono i gruppi, le persone e gli uomini».
Zeman ha parlato di regole
«Le regole fanno parte della quotidianità. Ogni cittadino deve averne e rispettarle. Le regole sono normalità».
Il Sassuolo è la nuova Udinese?
«L’idea è quella».
In quale campionato europeo si immagina in futuro?
«Mi piacerebbe lo spagnolo».
Poi deve convertirsi al tika taka
«Lo farò, con qualche verticalizzazione in più».
All’estero la differenza la fanno gli stadi.
«Sì. Qui sono fatiscenti, con poca organizzazione, non accoglienti, abbiamo la paura di portare le famiglie. Vietare le trasferte è una sconfitta del calcio».
I tifosi si sono allontanati per questo motivo?
«Anche per questo. Non perché il calcio non sia bello. Il calcio è lo stesso di prima, con partite anche più tirate. Il paradosso è proprio questo: migliora la qualità e si perdono gli spettatori. E non è colpa delle tv, presenti in tutti i paesi, come ad esempio in Inghilterra, in Germania».
Però in Inghilterra, ad esempio, le televisioni non trasmettono tutte le partite come avviene in Italia.
«E allora cominciamo a toglierne pure qui. Chi fa meglio va preso come esempio».
Domanda complicata: come si comporterebbe con Totti? Sarebbe paziente o cinico?
«È un discorso delicato. È importante ciò che sente lui. Francesco sa di non essere un ragazzino, è intelligente, Spalletti è uno che non si nasconde. Io al massimo gli proporrei di venire a farmi da collaboratore. Noi io il suo. Lui a me». Chiaro.
Sarri contro Allegri, Juve contro Napoli. È in ballo lo scudetto?
«Sono due bravissimi allenatori e due grandi squadre, le migliori del nostro calcio. Sarà un grande spettacolo, finirà in pareggio».