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 2016  febbraio 06 Sabato calendario

Un altro dei fedelissimi abbandona Berlusconi. Dopo trentatré anni di guerra, undici a Canale 5 e ventidue in Forza Italia, Giorgio Lainati dice addio

Dopo trentatré anni di guerra, undici a Canale 5 e ventidue in Forza Italia, Giorgio Lainati deve avere i segni sul corpo. Però adesso a sanguinare è l’anima: il partito gli ha annunciato il licenziamento e Mediaset gli ha negato la riassunzione. «È stato Confalonieri – ha confidato all’AdnKronos -, con motivazioni tanto risibili, quanto offensive dopo anni di fedeltà nei loro confronti». E sarebbe una triste storia come tante se non si trattasse di Lainati, che a maggior gloria del Cavaliere ha incrociato le armi col mondo: «Infamità assoluta», «orrendo cinismo», «indegna campagna», «clava politica», ossia l’intero arsenale del vocabolario impiegato contro chi accusava Silvio Berlusconi di mire dispotiche o impresentabilità internazionale. Magari non molti di voi lo ricordano ma, soprattutto lungo il primo decennio del secolo, Lainati è stata una certezza quotidiana. Da responsabile comunicazione azzurro, ha avuto da ridire sulla professionalità di Enzo Biagi, Gianni Riotta, Michele Santoro, Lucia Annunziata, Fabio Fazio, Sandro Curzi, Lilli Gruber, Giovanni Floris, Serena Dandini, Federica Sciarelli; ha additato alla moralità pubblica Ballarò, Blob, Quelli che il calcio, Che tempo che fa, Primo piano, La storia siamo noi, Superstoria Doc, Tg1, Tg2, Tg3, «tutti i giornalisti della Rai», la «Rai nel suo complesso». Se era in maggioranza se la prendeva col Tg («Come mai il servizio su Berlusconi a Catania era in coda?»), se era all’opposizione se la prendeva coi censori («Rutelli contesta anche la scaletta del Tg»), poi tornava in maggioranza («Troppo spazio alle opposizioni») e quindi tornava all’opposizione («Vincenzo Vita non può scrivere la scaletta del tg»); allora, con la sinistra al governo, si sentiva di denunciare la «farsa», la «catastrofe», l’«indecenza», lo «scandalo», il «regime», il «far west», lo «sconcerto», l’«emergenza», l’«emergenza inquietante» e l’«emergenza democratica».
Che uno così dopo trentatré anni (quelli di Cristo, non a caso) riversi sui vecchi capi giusto un po’ d’amarezza, bé, è l’ultimo atto d’amore. Poi proverà il brivido del dissenso, votando per le Unioni civili, e infine quello della diserzione se, come si dice, passerà nel gruppo di Denis Verdini. E sarà un gruppo fortunato perché guadagnerà un combattente dalle vastissime risorse dialettiche, e purtroppo qui l’antologia è sommaria: «Venditore di mortadella» (Romano Prodi), «esternazioni all’amatriciana» (Beppe Fioroni), «ridicolo cabarettista» (Antonio Di Pietro), «vera buffonata» (Roberto Cuillo), «avanspettacolo» (Daniele Capezzone), «comunista» (Massimo D’Alema), «fuori di testa» (Beppe Giulietti), «senza vergogna, politicamente immorale» (Alfonso Pecoraro Scanio), «ridicolo, pura comicità» (Pietro Folena) «figuranti nel Nuovo cinema Moretti» (manifestanti del centrosinistra), «vecchi polverosi e bugiardi» (quelli della Margherita), «da fiction» (Roberto Giachetti), «arrogante, bugiardo, killer» (Paolo Gentiloni). E alla fine di una simile sventagliata, aveva la lucidità di richiamare gli avversari al raziocinio: «Non dovete vedere fantasmi ovunque». In effetti il problema era uno solo: «l’odio contro Berlusconi». Ora il problema è anche un altro: lo sciupìo d’amore.