Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 06 Sabato calendario

Il boom (ritardato) del bestseller dei miliardari, “Business adventures”, un libro inchiesta sull’economia degli anni ’60

Si potrebbe chiamarlo il bestseller dei miliardari. Questo libro ha una storia curiosa. Nasce come una raccolta di articoli apparsi sul prestigioso magazine ÇThe New YorkerÈ negli anni Sessanta. Firmate da un pioniere del reportage giornalistico su capitani dÕindustria, avventure finanziarie, grandi eventi dellÕeconomia. Poi viene dimenticato, È esaurito per decenni nelle librerie, quasi introvabile perfino nel mercato dell’usato. Ma una delle poche copie rimaste è in buone mani. Appartiene a Warren Buffett, detto «il saggio di Omaha», il primo o secondo uomo piú ricco d’America nonché celebre investitore dal fiuto quasi infallibile. Nel 1991, il suo amico Bill Gates gli chiede: «Qual è il miglior libro che hai mai letto sul business?» Buffett non ha esitazioni, gli presta una copia di quel volume ormai raro, Business Adventures di John Brooks. Il fondatore di Microsoft se lo tiene per tredici anni (quante volte lo avrà riletto?) e poi all’improvviso nel 2014 ne scrive un’appassionata recensione sul Wall Street Journal. E a quel punto scatena un finimondo. Anche se tra i ragazzini della Silicon Valley il fondatore di Microsoft è una figura che appartiene al passato, fuori moda, nel resto degli Stati Uniti e nel mondo intero il carisma di Gates rimane intatto.
La benedizione congiunta di Buffett e di Gates ha provocato naturalmente una riscoperta di questo libro. In America è stato ristampato subito dopo l’illustre recensione sul Wall Street Journal, quindi è balzato nelle classifiche dei piú venduti; nel mondo intero è stato tradotto o ripubblicato. L’autore non può godersi questo revival, è scomparso da anni, le royalty andranno ai suoi eredi.
Il rilancio di attenzione a mezzo secolo di distanza è meritato. Non aspettatevi il solito manuale di consigli su come diventare i futuri Bill Gates o Steve Jobs. Quest’opera è agli antipodi rispetto al filone (pur di successo) dei libri che insegnano ricette miracolose per creare un’impresa vincente, la prossima Microsoft, Apple o Google. Brooks apparteneva a tutt’altra categoria.
Era un giornalista, un osservatore distaccato, e dotato di robuste difese immunitarie contro le mitologie del management. Era uno scettico, che studiava le grandi imprese Usa degli anni Sessanta, raccontava le loro gesta, analizzava gli exploit dei loro titoli a Wall Street, ma era pronto a scoprirne le contraddizioni, i punti deboli, le fragilità che avrebbero condannato alla rovina alcuni potentati del capitalismo di allora. Insieme con le success stories lo attiravano i loro rovesci: le failure stories, i brutali passaggi dalle stelle alle stalle, le traiettorie repentine che bruciarono i miti e le leggende di quel tempo.
Forse non è un caso che Buffett e Gates, oltre a essere amici, oltre ad alternarsi di anno in anno al primo o secondo posto dei Paperoni d’America, hanno in comune qualcos’altro: hanno criticato il sistema fiscale americano per essere troppo favorevole ai ricchi; hanno devoluto la maggior parte del proprio patrimonio in filantropia, diseredando di fatto i propri figli. Non stupisce che tutti e due si riconoscano nello sguardo ironico, e a volte severo, con cui Brooks racconta fasti e glorie dei capitalisti degli anni Sessanta. «Uno scettico, – ha scritto Gates sul Wall Street Journal, – si chiederà cos’abbia da dirci una serie di articoli degli anni Sessanta, sul mondo del business di oggi. Dopo tutto, nel 1966, quando Brooks scrisse il suo ritratto di Xerox, la fotocopiatrice di quella marca pesava trecento chili, costava 27 500 dollari, richiedeva un operatore a tempo pieno e veniva venduta con l’estintore in dotazione, per la facilità con cui si surriscaldava. Da allora sono cambiate parecchie cose: ma non quelle fondamentali».
Le storie raccolte in questo volume sono utili per noi, anche perché ci trasportano nel cuore di quel formidabile periodo che furono gli anni Sessanta. Furono la nostra ultima età dell’oro: l’ultimo periodo in cui l’Occidente conobbe alta crescita, pieno impiego, costanti aumenti nelle retribuzioni e nel potere d’acquisto delle famiglie. Furono anche un’epoca meno diseguale della nostra, con un fisco piú redistributivo, e una classe manageriale che si “accontentava” di guadagnare mediamente 40 volte il salario dei suoi dipendenti, invece che 400 volte com’è la regola oggi.
Brooks non si occupa soltanto delle grandi imprese di quegli anni. Racconta i meccanismi psicologici a volte misteriosi che stanno dietro un crac di borsa. Narra il primo caso di insider trading a essere condannato da un tribunale americano. È capace di rendere appassionante anche un tema come il fisco: la sua descrizione storica della nascita, evoluzione, ipertrofia e gigantismo della moderna income tax (l’equivalente americano della nostra Irpef, imposta sui redditi delle persone) rimane un capolavoro. Senza salire in cattedra, senza ideologismi, lui mette a nudo tutti gli ingranaggi della gigantesca macchina fiscale. Cosí facendo rivela il progressivo snaturamento della sua funzione: da strumento trasparente per il finanziamento dei servizi pubblici, e per la redistribuzione in favore dei meno abbienti, l’imposta diventa un terreno di battaglia fra lobby, interessi potenti, che riescono a distorcere tutto il sistema del prelievo a proprio vantaggio, fino a farne una giungla.
Uno dei pregi di questo libro, evidenziato anche da Bill Gates, è la sua sottigliezza. Brooks sa scrivere semplice ma evita il semplicismo. Da nessuna parte in questo libro troverete quei decaloghi insulsi, quegli elenchi di formulette magiche con cui altri hanno tentato di riassumere le qualità vincenti di un’azienda, o di un’economia. È spietato con le mode intellettuali del suo tempo, come la mania delle grandi imprese di ridurre ogni problema a “comunicazione”. Oggi sarebbe facile applicare un’ironia analoga al termine “cultura”: ogni azienda ha deciso che deve essere portatrice di una «cultura», il piú delle volte una collezione di banalità, ipocrisie, luoghi comuni.
Raccontare l’economia come lo faceva Brooks nell’America degli anni Sessanta è in realtà un’arte. Non a caso, l’arte si è cimentata a volte con la sfida di raccontare l’economia, e ne sono usciti dei capolavori immortali. Le pagine migliori per capire la borsa delle origini, e tanto capitalismo dell’Ottocento, le ha scritte Émile Zola ne Il denaro.
La nascita della borghesia capitalistica moderna è ne I Buddenbrook di Thomas Mann. Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald illustra con poche pennellate la follia speculativa degli anni Venti, le diseguaglianze patologiche, il capitalismo avido e distruttivo che scatenerà il crac del 1929 e la Grande depressione. Brooks non apparteneva a quel pantheon. Era un umile artigiano del reportage, senza aspirazioni letterarie: fatti, solo fatti. Ma che goduria.