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 2016  febbraio 06 Sabato calendario

Il bilancio della presidenza Obama

In prossimità della conclusione della presidenza Obama, penso si possa cominciare a trarre un bilancio. Premesso che gli Stati Uniti sono un grande impero, e che la storia insegna che un grande impero non può essere mantenuto governandolo con idee populisticamente socialisteggianti, credo che Barack Obama non passerà alla storia come un grande presidente. Da un’approfondita ricerca dell’Università di Quinnipiac (Connecticut), specializzata in sondaggi, risulta che Obama è ultimo nella classifica che attraversa 69 anni di storia americana e 12 presidenti. Credo non sia un caso se, fra tutti i presidenti Usa, quelli giudicati migliori sono, in netta prevalenza repubblicani (Lincoln, Eisenhower, Reagan, Nixon, ecc.). Sul mitizzato democratico Kennedy penso abbia ragione chi afferma che «non ha avuto il tempo di completare la dimostrazione di non essere un buon presidente». Insomma, la storia punisce quanti fanno largo uso di miracolose promesse populistiche, presentandosi come i «guaritori» di tutti i mali che affliggono i popoli. Credo che risulterebbe interessante un suo parere in merito.
Giovanni Cama
giovannicama37@gmail.com

Caro Cama,
Non credo che Barack Obama possa essere accusato di populismo e penso che un giudizio complessivo sulla sua presidenza sarà possibile soltanto quando saremo in grado di giudicare il risultato delle sue iniziative più importanti. Le propongo quindi un bilancio parziale e provvisorio.
È riuscito, anzitutto, là dove il suo predecessore del partito democratico, Bill Clinton, aveva fallito. La riforma sanitaria ha introdotto negli Stati Uniti un sistema mutualistico che garantisce assistenza a quasi trenta milioni di persone. Sappiamo che la riforma è contestata da una parte della società americana e che qualche candidato repubblicano alla Casa Bianca promette, se verrà eletto, di revocarla. Ma è difficile immaginare una tale prospettiva in una fase in cui il divario fra ricchi e poveri, soprattutto negli Stati Uniti, si è scandalosamente allargato.
È meno positivo, invece, il giudizio sulla politica estera. Obama aveva un obiettivo: riparare per quanto possibile ai danni provocati dalle guerre di George W. Bush. Voleva chiudere il carcere di Guantanamo, ritirare le truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, dare un contributo risolutivo alla soluzione della questione palestinese, «resettare» i rapporti con la Russia di Putin. Ma Guantanamo contiene ancora qualche centinaio di detenuti; il ritiro delle truppe è stato parziale e non ha giovato, comunque, alla stabilità della regione; la questione palestinese è ancora un problema irrisolto; nuovi conflitti, in Libia e in Siria, hanno ulteriormente complicato le vicende mediorientali; la crisi ucraina ha reso i rapporti con la Russia ancora più traballanti di quanto fossero all’epoca del suo predecessore. Sono numerosi i casi in cui le responsabilità non vanno imputate al presidente americano, ma il bilancio della sua politica estera contiene più insuccessi che trionfi.
Restano, caro Cama, le due iniziative internazionali che hanno particolarmente impegnato Obama negli scorsi mesi: il lungo negoziato sulla politica nucleare del governo iraniano e la ripresa delle relazioni con Cuba. Sono ancora questioni aperte, dall’esito incerto, ma occorre riconoscere a Obama il merito di avere coraggiosamente affrontato due problemi che i suoi predecessori, per quieto vivere, avevano preferito ignorare o trattare con criteri ormai anacronistici.