Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 06 Sabato calendario

Così Hanry James uccise i sogni di Isabel in Ritratto di signora

Come scrive Graham Greene, Ritratto di signora di Henry James (1880) «è la più grande e ricca cattedrale che il moderno lettore di romanzi possa conoscere». Poche decine di pagine dopo l’inizio, giunge dagli Stati Uniti, da Albany, la protagonista, Isabel Archer: James la ama con una dedizione e venerazione pari soltanto a quella che Tolstoj nutre per Anna Karenina. Isabel è preceduta da una specie di aura mitica: i personaggi maschili la vorrebbero sposare: i personaggi femminili la invidiano; noi, lettori, la commentiamo per tutto il resto del libro, come se dalla conoscenza di lei dipendesse la nostra vita. Ma la parola ultima su di lei non viene mai detta, né dai suoi adoratori né da Henry James.
James non fa che ritrarla. Ecco quattro ritratti. Il ritratto col cagnolino: «Isabel si era seduta, ed aveva posato il cagnolino; le bianche mani, in grembo, si chiudevano sul nero della veste; il capo eretto, l’occhio luminoso; e la flessuosa figura si volgeva ora qua ora là, obbedendo al vivace stimolo delle sue impressioni». Isabel-giunco: «Era irraggiungibilmente snella, tangibilmente leggera, manifestamente altera; per distinguerla dalle altre due sorelle, tutti l’avevano sempre chiamata “il giunco”. I suoi capelli, scuri fino ad esser neri, erano stati oggetto d’invidia per molte donne; i suoi luminosi occhi grigi, forse un po’ troppo fissi nei momenti difficili, avevano un’intensa carica di affabilità».
Isabel a Gardencourt: «Isabel si avviò verso l’altro capo della galleria di Gardencourt, e si fermò là, mostrando a Ralph Touchett le spalle incantevoli, l’agile e snella figura, la lunghezza del collo bianco mentre chinava la testa, e la densità delle trecce scure. Sostò davanti a un quadretto, per esaminarlo; e c’era qualcosa di così giovane e libero nei suoi movimenti, che la sua flessibilità sembrò schernire Ralph». Ecco, finalmente, Isabel come lady : «Era vestita di velluto nero; appariva altera e splendida, e tuttavia come radiosamente soave! Aveva perduto qualcosa della sua pronta pazienza; aveva l’aria di saper attendere. Incorniciata dall’arco dorato della porta, fece al nostro giovane l’effetto di un ritratto di nobile dama».
Tutti i personaggi sono incantati dall’ardore vitale di Isabel: dall’amore incontenibile che nutre per il mondo: dalla curiosità, dal desiderio, dalla brama di conoscenza e di esperienze: dal dono di imbeversi nelle anime e nelle cose; dalla mobile sinuosità di una mente, che sembra non conoscere limiti. Desidera essere libera: felice ogni istante, abolendo la sofferenza. Nessuno ha l’immaginazione più pronta nell’inventare fantasie e teorie e sogni eroici, ai quali talvolta nulla di reale corrisponde. Se rifiuta la proposta di matrimonio di Lord Warburton, che pure le piace moltissimo, è perché le sembra di limitare la sua esplorazione della vita. Chiede sempre troppo: non può rinunciare a niente; o, per meglio dire, questo ardore appassionato la spinge a non accettare niente, a volere sempre di più di quello che gli uomini e il mondo le offrono. Come ogni eroina romantica, rifiuta tutti i calcoli, le recite, le previsioni: addirittura la forma, sebbene la sua grazia naturale la faccia diventare maestra di ogni eleganza.
Isabel possiede un dono che né Emma Bovary, con i suoi occhi neri e azzurri, né Anna Karenina, con i suoi occhi grigi, conoscono. È pura: la purezza radiosa della vergine Diana e di Don Chisciotte: da questa purezza discende la ricerca di perfezione, l’orgoglio puritano, che a tratti la fanno diventare dura, adamantina e crudele, sebbene non smarrisca mai la sua musica giovanile; e discende anche una qualità, che parrebbe contraddittoria. Proprio lei, che sembra così ansiosa di ogni esperienza, protesta che non vuole bere dalla «coppa dell’esperienza»: come Henry James, che conosceva tutta la vita, eppure non si lasciava toccare e avvelenare dall’esperienza, conservando la sua mente eterea. Isabel non vuole conoscere i misteri, l’ombra e le tenebre. Mentre gli altri personaggi sono persone limitate e reali, non appartiene al regno della realtà. Isabel è l’anima. Come l’anima, è vasta, illimitata, senza confini. Come l’anima, non sceglie, non agisce. Come l’anima, irradia luce; e non c’è personaggio del Ritratto che non s’imbeva, o non cerchi di imbeversi, della sua luce. Quello che fa, non importa: Isabel è, sovranamente; e Ralph, il più perspicace dei suoi ammiratori, la vede «librata in alto, nell’azzurro,... a navigare nella viva luce, sopra la testa degli uomini».
Tutto quello che circonda Isabel, specie nella prima parte del libro, è indicibilmente soave, come forse in nessun altro romanzo di James. Che dolcezza e profondità nell’amore di Lord Warburton per Isabel. «“Non mi slancio facilmente, ma se sono toccato, è per la vita”, disse Lord Warburton con la voce più gentile, tenera e simpatica che Isabel avesse mai udito, e guardandola con occhi carichi della luce di una passione che si era purificata dai lati più bassi dell’emozione: calore, violenza, irragionevolezza, e che ardeva tranquilla come un lume in un lago senza vento». E che tenerezza nell’amore di Ralph Touchett: quest’uomo intelligentissimo e spiritosissimo, che rinuncia alla vita, e «sa gustare la dolcezza soltanto guardandola»; dono unico che Henry James condivideva più di ogni altro uomo.
Qualche volta, Isabel ha paura: sopratutto ha paura di sé stessa; e ricordiamo quello che Lord Warburton dice, quasi di sfuggita: «Isabel è terribile». Perché terribile? In lei c’è una zona d’ombra: un territorio oscuro, di cui lei stessa, a momenti, si accorge. In questa zona d’ombra si insinua il Male, con i volti insidiosi e malvagi di Madame Merle e di Gilbert Osmond.

Quando Isabel parte per l’Italia, Ritratto di signora si trasforma. Se era stato una narrazione orizzontale, condotta da una mano senza nervi, diventa un complicato romanzo a intreccio, che affonda nel mistero e nel segreto. James non amava la parola: intreccio. E certo non c’è ricordo, qui, delle grandi macchine dickensiane, condotte per mezzo di inverosimili colpi di scena, capovolgimenti della trama, agnizioni prodigiose, irrorate da un sangue allegro, alcolico e coloratissimo. L’intreccio romanzesco di James è più sfumato. Ma anche lui ha bisogno di queste belle macchine narrative. Esse permettono all’analisi psicologica di intervenire con più intensità; e al Male di avanzarsi sulla scena del libro, di dominarlo, di tingerlo interamente con i colori più oscuri. Se Madame Merle e Gilbert Osmond usano i loro metodi da ragno, anche James tesse la ragnatela dell’intreccio per rivelare la presenza del Male nel mondo.
A prima vista, sembra difficile supporre che la bionda, liscia e rotonda Madame Merle, della quale Isabel si innamora con candore giovanile, appartenga al regno del Male. È una grande dama: suona perfettamente il piano: ha amici ricchi ed aristocratici in ogni paese; possiede il dono del tatto, la prima delle virtù mondane. Essendo una dama, ha le qualità che Isabel, l’anima, non possiede: la discrezione, l’esperienza, la freddezza di carattere, il rispetto della società, la saggezza, l’esercizio quotidiano della volontà. Isabel la trova squisita: sovranamente squisita. Noi, che siamo messi sull’avviso da James, la troviamo meno deliziosa: certe piccole malignità, invidie, falsità, errori di recitazione, ambizioni fallite non appartengono a una figura del Cortegiano moderno. Finché Madame Merle si rivela. La sua vera passione è quella per i misteri: il suo regno è l’ombra; la sua arte quella di tessere i destini umani, guidando l’intreccio del romanzo, come se fosse lei, non James, il vero narratore. Ama talmente i misteri, da affondare completamente nell’ombra. Alla fine scompare per sempre, negli Stati Uniti.
Più prossimo al Male ci sembra Gilbert Osmond, l’antico amante di Madame Merle, che Isabel avrà la sventura di sposare. Appena lo vediamo, ci attrae e ci ripugna. Come sono fini e sottili i suoi lineamenti – simili ai ritratti dei fiorentini del Rinascimento, che gli esiliati americani contemplano agli Uffizi. Fine è il suo viso: fine la voce, che vibra come il vetro: fini i polsi, le mani, le caviglie: sottile l’organismo; e supremamente sottile (e quasi crudele) ci appare quando copia, con acquerelli e pennelli sottilissimi, l’incisione di una moneta antica. Dietro le spalle quest’uomo troppo fine ha immense ambizioni: «Ha sempre avuto l’aria di discendere dagli dèi». Le ambizioni sono fallite, e si sono nascoste in una rassegnazione più amara che felice. Così egli si è adattato al minimo, diventando un uomo di gusto, uno dei tanti esteti che tra il 1870 e il 1880 percorrono l’Italia. Scopre pitture antiche: obbedisce alla pura divinità del gusto; detesta la volgarità; senonché, come tanti esteti, invece di fuggire il mondo, vive esclusivamente per il mondo, dal quale aspetta una patente di nobiltà. Si nutre di premeditazione e di calcolo, anche quando recita la sua parte di uomo brillante, lieto e pieno di fascino. Freddo, arido, cinico, altero, pieno di disprezzo, controlla e domina sé stesso; e sopratutto, come uno spietato tiranno, vuole possedere e dominare completamente gli altri – specie le donne innamorate di lui.
Arrivati a questo punto, malgrado tante illuminazioni parziali, ci accorgiamo di non conoscere quasi nulla di Madame Merle e di Gilbert Osmond. Abbiamo detto che entrambi appartengono al regno del Male. Ma che fanno di così malvagio? Osmond sposa Isabel per la sua eredità: Madame Merle prepara questo matrimonio, per assicurare alla figlia, avuta da Osmond, una sorte sicura. Qualsiasi tribunale manderebbe assolti sia Madame Merle sia Osmond. Le loro sono azioni mediocri, o volgari, non malvagie. Solo che Henry James, grande teologo moderno, aveva un’idea del Male diversa da quella di tutti i tribunali del mondo. Il Male, per lui, non si esprime soltanto, o sopratutto, in azioni malvagie: è un’essenza, un clima, un’atmosfera; qualcosa di indicibile, che nessun atto umano può realizzare completamente. Se vogliamo guardarlo in volto, dobbiamo contemplare i due complici, che si conoscono e si odiano, come accade sempre alle incarnazioni del Male. Con meravigliosa potenza fantastica e semplici, inavvertibili tocchi, James suscita la presenza del Segreto, dell’Insidia, dell’Ombra, che avvolge tutto il libro e noi, che dopo di allora leggiamo rabbrividendo. Isabel Archer è la vittima attesa dalla ragnatela del Male. Cade prigioniera della propria immaginazione, che le descrive un quadro di Osmond fantastico, dipinto solo coi colori delle sue grazie superficiali. Se aveva allontanato da sé la «coppa dell’esperienza», ora l’esperienza le si rivela come un territorio ignoto, dove si perde: mentre il mondo della forma, delle convenzioni e degli artifici, che non le appartiene, la attrae come non avremmo creduto.
Qualche anno dopo, ritroviamo Isabel Archer divenuta una lady. Vive a Roma, a Palazzo Roccanera, uno di quegli splendidi e tenebrosi palazzi secenteschi, simili a fortezze, pieni di affreschi, di statue antiche e di urne polverose, che avevano già attratto la fantasia di Hawthorne. Mentre avevamo contemplato Isabel nel libero paesaggio inglese, ora vive nel buio: le sembra di essere chiusa in un angusto vicolo cieco con un muro in fondo: tutte le luci della sua vita si spengono l’una dopo l’altra; a poco a poco l’ombra la invade e la possiede, mentre la sua tristezza segreta si accorda con la tristezza mortale della città. Su questo fondo fosco, la sua ardente bellezza giovanile tocca una grandiosità, uno splendore, e quasi un’insolenza, che prima non conosceva. Come sono gravi i suoi occhi! E come è «imperturbabile, imperscrutabile, impenetrabile» la sua espressione! Il matrimonio fallisce. L’esteta dal viso fine e dalla voce sottile come vetro diventa un personaggio da romanzo nero. Non lo anima altro che malvagità, odio, brutalità, violenza, desiderio di dominio e di umiliazione. Isabel è la sua succube, e cede ai suoi desideri più abbietti.
Isabel aveva avuto tanti sogni. Aveva amato la vita: aveva voluto guardarla con i propri occhi: conoscerla appassionatamente; e contemplare il mondo dall’alto della sua felicità, guardando in basso con un senso di superiorità e di esaltazione. Ora è giù, a terra, con le ali spezzate, per sempre incapace di volare. Se era stata incostante, errabonda e capricciosa, ora vive prigioniera delle convenzioni, delle ferree convenzioni, che applica con uno stile impeccabile. Se aveva rifiutato il dolore, ora la sua esistenza non è che umiliazione, sofferenza, soffocazione. «C’era un peso perenne sul suo cuore, su ogni cosa si posava una livida luce». Se aveva contemplato il mondo con grandi occhi aperti, riempiendolo del loro splendore, ora lo osserva di nascosto, come una spia. Se era stata soavemente quieta, ora è inquieta, esageratamente attiva, sarcastica, indifferente a tutto quel che fa. Il marito l’ha ferita nel profondo, sottraendole la sua forza di metamorfosi, che le permetteva di cambiar vita, pensieri, sentimenti.
Un ultimo viaggio potrebbe salvarla. Sale sul treno, che la conduce in Inghilterra, dove Ralph, il cugino, l’uomo che l’ha più puramente amata, sta per morire. Sul treno i suoi pensieri percorrono lande prive di pensieri, dove regna la perpetua desolazione dell’inverno; e i segni del passato diventano pesanti come piombo. Vorrebbe finire completamente, rinunciare a tutto, non sapere più nulla. Sta seduta nello scompartimento, immobile e passiva, con la sensazione di lasciarsi trasportare, distaccata da ogni speranza. Il fuoco di Isabel si spegne; e attorno a lei si assottiglia e impallidisce il mirabile romanzo. Quando giunge a Gardencourt, vede Ralph moribondo. Non vorrebbe che egli vivesse. Vorrebbe morire anche lei, per non perderlo. È l’ultima estasi: l’unione amorosa nell’immaginazione della morte. «Qui in ginocchio, con voi morente tra le mie braccia», Isabel dice a Ralph, «sono più felice di quanto non fossi da molto tempo. E voglio che siate felice anche voi... che non pensiate a niente di triste, che pensiate solo che vi sono vicina, che vi amo».
Poi tutto si spegne. Cosa importa che uno dei suoi innamorati la baci, e che per un momento Isabel senta il mondo spalancarsi attorno a lei, prendendo la forma di un immenso mare, dove lei fluttua in un’acqua senza fondo? È solo un istante. Isabel non ha più la forza di rigenerarsi nelle acque salvifiche dell’universo. Non le resta che prendere il treno per Roma; e rinchiudersi nel buio, nel carcere, nell’umiliazione, in quella «piccola morte» che è la sua vita quotidiana. La creatura di luce, che ci era apparsa sul prato estivo di Gardencourt, è soffocata per sempre.