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 2016  febbraio 04 Giovedì calendario

L’uomo che, al risveglio dal coma, ha perso dalla memoria dodici anni di vita. Ora racconta in un libro come ha ricostruito il suo mondo

Come può Dio lasciarci la vita che stavamo per perdere, eppure strapparne via un pezzo cancellandolo? È la disperata domanda dell’uomo che, al risveglio da poche ore di coma per un incidente stradale, ha perso, annientato nella memoria, quasi un quarto della sua esistenza: ricorda bene quel che ha fatto ieri, prima dell’impatto, ma il suo «ieri» risale a dodici anni prima. «Non fate entrare i bambini», dice: per lui hanno ancora 8 e 11 anni. E che strani questi volti noti, come pare passato d’improvviso il tempo sul viso della moglie.
L’attonita rinascita nel futuro di Pierdante Piccioni – angoscia e frustrazione, ira e solitudine, pianto e tenacia – pare la trama d’un classico di fantascienza, è invece la sua storia vera. Medico d’urgenza, è uscito da un incidente d’auto con un’amnesia che ha distrutto una lunga memoria. La racconta in Meno dodici (Mondadori, pp. 359, €20, da domani in libreria) con Pierangelo Sapegno, firma della Stampa. Una narrazione dall’intensità che sgomenta e illumina, perché il lettore respira, condivide, vive passi e sentimenti del marziano in terra sconosciuta, il vuoto e la battaglia non tanto per ridipingere il perduto quanto per raggiungere la sponda, rientrare nel cammino, superare il drammatico quesito («sono esistito in questi dodici anni che mi sono stati cancellati?»), ritrovare sé tutt’uno con gli altri, una «inclusione nel mondo».
Pierdante Piccioni, primario al Pronto soccorso di Lodi, ha un incidente in tangenziale il 31 maggio 2013. Al risveglio in ospedale, dice di ricordare quel che è accaduto prima dell’impatto: ha accompagnato a scuola il figlio Tommaso, con dei dolcetti per la festicciola. A scuola con i dolcetti? Tommaso è universitario. Gli domandano che giorno è: il 25 ottobre 2001, risponde. Dodici anni scomparsi, non sa d’essere primario, non sa di una carriera tra accademia e consulenza per il ministero, scoprirà via via che la madre non viene a trovarlo perché è morta da anni, guarderà con stupore d’estraneo la casa dove abita.
Chi è, in questa bolla di vuoto e dentro di sé, il marziano che guarda stupefatto il vicino di stanza armeggiare con un telefonino capace di cose impensabili? che di fronte a uno specchio portato con cautela scopre un uomo diverso da come si conosce, che ora trova così irreale, quasi crudele, quel «devi essere te stesso nella vita» che gli ripeteva la madre, davanti alla cui tomba si sentirà l’unico uomo che prova due volte lo stesso lutto.
Un viaggio nell’angoscia e nella tenacia tesa al domani. Non soltanto non sono suoi luoghi e oggetti, nemmeno sono i suoi figli questi ragazzoni spigliati, spicci, in apparenza irrispettosi perché così opposti ai bambini che conosce e reclama. Il medico cattura il presente, indaga il passato vuoto, punta al futuro incerto – come privo d’una parte di fondamenta – e li incrocia tentando di fare un’unica vita di due esistenze tra le quali c’è un baratro. Un esame di Medicina nucleare gli mostra una sorta di piccola area perduta del cervello, legge il referto su una panchina fuori dell’ospedale e lo riscuote la voce d’una bimba: «Guarda, mamma, un signore si è fatto male e sta piangendo». In quella solitudine interiore si fanno sempre più sentenza le ricorrenti parole di Gabriel García Márquez: «La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda».
Il medico dalla spedita carriera ora è dall’altra parte, ha le reazioni del paziente e si scruta da scienziato, tra colleghi, strizzacervelli, affetti, dolcezze e insofferenze. Ha la lucidità per domandarsi: è morto il meccanismo che trae i ricordi dal magazzino o è distrutto il magazzino? E allora – mentre il presente affonda altre unghiate, dalla morte del padre a una recidiva di malattia della moglie – supera il pensiero di chiuder per sempre la partita e si immerge con disperata e limpida forza nello studio, traendo energie da lampi di passato – una giovanile annotazione su Uomini e topi di Steinbeck, i file di computer con lettere e appunti degli anni cancellati – fino alla battaglia per tornare in ospedale, ricreando o ripescando e aggiornando la cultura professionale. E proprio il ricomporsi del mondo affettivo, il ritrovare i bambini nei figli cresciuti, il sostegno reciproco con la moglie, divengono la vera e più profonda ragione per riconquistare il mondo del lavoro. Un’altra battaglia tra frustrazioni e umiliazioni d’un ambiente rugginoso di burocrazia e giochi di potere. Fino a un marito e padre che da «nuovo» primario si accosta all’anziana paziente in pronto soccorso.
Diario reale, Meno dodici è il romanzo della vita spaccata in tronconi e rimontata pur essendone andato smarrito un pezzo. Piccioni e Sapegno lo scrivono con la palpitazione dell’esperienza diretta, la speditezza della cronaca, l’accortezza della scienza, l’emozione dei sentimenti, il respiro della letteratura.