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 2016  febbraio 04 Giovedì calendario

Polemiche per l’intervista a Luca Varani in onda stasera. Franca Leosini si difende

Con la nuova edizione di Storie maledette su RaiTre in prima serata è la regina della stagione televisiva. In vent’anni ha intervistato tutti: da Angelo Izzo, uno dei massacratori del Circeo, a Patrizia Gucci a Pino Pelosi. Il ciclo si chiude oggi, tra le polemiche, col Pd (Vinicio Peluffo e Michele Anzaldi e la vice presidente del Gruppo Dem alla Camera, Alessia Morani) che chiede di non trasmettere l’intervista a Luca Varani, condannato in Appello a 20 anni come mandante dell’aggressione con l’acido alla sua ex fidanzata, l’avvocatessa Lucia Annibali. «La correttezza della Leosini è indiscussa. La nostra richiesta – spiega Alessia Morani – è stata fatta alla luce dell’intervento della Procura di Pesaro. Varani è stato condannato in primo grado il 29 marzo 2014 e la sentenza è stata confermata nel gennaio del 2015, ma ancora manca il giudizio della Cassazione, la prima udienza è prevista per il 10 maggio». «La verità processuale non sarà condizionata dall’intervista» dice l’avvocato della Annibali, Francesco Coli, a Rtv San Marino. «Ma conoscendo il soggetto non credo che confesserà o chiederà scusa». In Rai confermano che la puntata andrà in onda e che sono stati chiesti tutti i permessi al Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Napoletana, marito direttore di banca, due figlie, laurea in Lettere, ex collaboratrice all’Espresso, ex direttrice di Cosmopolitan, Franca Leosini viene chiamata a RaiTre da Angelo Gugliemi che legge i suoi commenti sui processi sul Tempo. Nel 1988 è autrice di Telefono giallo, dal ’94 gira le carceri a caccia di storie. Chioma a profiterole che resiste alle mode, giacche firmate («le compro io, sia chiaro») voce modulata, flautata e perentoria, conoscenza dei processi dalle virgole alle parentesi, ipnotizza pubblico e criminali.
Signora Leosini, che pensa della polemica su Varani?
«No, su questo non faccio commenti. Chieda alla Rai. Mi risulta che l’intervista andrà in onda. Però mi scusi, una cosa».
Dica.
«Non voglio essere chiamata signora, le signore stanno in salotto e le giornaliste stanno sul marciapiede. Signora mai».
Va bene. Come prepara le puntate?
«Non ho pregiudizi, cerco risposte. Studio gli atti dalla prima all’ultima pagina. Vado a incontrare persone che sono come me e come lei, ma che sono cadute nel vuoto di una maledetta storia. Per questo ho intitolato il programma Storie maledette. Fosse per me, li inviterei tutti a casa».
È sicura?
«Mah. Forse. Tutte le persone con cui ho parlato, però, non rifarebbero quello che hanno fatto, hanno avuto modo di elaborare. M’interessa ascoltare, l’intervista è quasi una seduta di analisi. Dico sempre che rubo l’anima per poi restituirla».
Quali sono le regole?
«Devono essere persone che non hanno mai parlato prima e non parleranno dopo. Non rivelo mai in anticipo le domande. Mi rifiutai d’intervistare Bozano, ero arrivata all’isola d’Elba dovevo andare a Porto Azzurro, e lui pose come condizione di sapere cosa avrei chiesto. Chiamai il dirigente Rai Giovanni Tantillo: “Mi dispiace, riparto le domande non le do”».
Vent’anni di “Storie maledette”: che ha capito?
«La lettura del paese attraverso i delitti è interessante: c’è la tipologia del nord. Il caso Olindo e Rosa, a Napoli, la mia città sfigurata dalla camorra, non si verificherebbe mai: da noi c’è la “vicoleria”, la solidarietà del vicolo, una reciprocità per cui il tuo pianto mi appartiene».
Le donne vengono uccise ovunque.
«La violenza sulle donne è peggiorata: fa più notizia e c’è maggiore sensibilità. L’uomo non accetta che la donna decida il destino della coppia, non sopporta l’indipendenza economica. È la memoria amniotica ed è trasversale: riguarda tutte le classi sociali».
Si è mai posta il problema di essere strumentalizzata?
«È impossibile, c’è un lavoro enorme dietro ogni incontro, e ringrazio la mia redazione per questo. Studio le carte, la psicologia, l’ambiente in cui la storia si verifica. Ci vuole fiducia reciproca, ma mi aspetto sincerità».
Si fida sempre?
«Dubito sempre. Quelli che parlano con me si affidano, sanno che non giudico. I miei verbi sono: capire, dubitare, raccontare. Voglio capire cosa abbia portato i miei interlocutori dalla quotidianità al delitto».
Usa un lessico forbito, arcaico.
«Non scelgo le parole, le possiedo. Il mio vocabolario è frutto di letture. Mi gratifica essere seguita dall’intellighenzia – Garrone per L’imbalsamatore e Primo amore si è ispirato a due storie maledette – e dal grande pubblico. Il verduraio ha la mia foto sul carretto, veleggio tra zucchine e peperoni».
È un’icona gay, i “leosines” sono scatenati: il segreto?
«Sono come mi si vede. In carcere vado col tailleur, non mi travesto. Sono me stessa».