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 2016  febbraio 04 Giovedì calendario

La Gran Bretagna può essere l’alleato inaspettato dell’Italia. Considerazioni a margine della visita romana del cancelliere dello Scacchiere Osborne

Quando aveva tredici anni, l’uomo attorno al quale ieri si è raccolta l’intera élite europeista d’Italia ebbe un’idea: voleva cambiare nome. Si chiamava Gideon Oliver, ma non gli era mai piaciuto. «Neanche a me», ammise sua madre. Da quel giorno il ragazzo si scelse un nome più comune, più inglese e più comodo come George, George Osborne, oggi cancelliere dello Scacchiere britannico.
A volte il pragmatismo di Londra è talmente congenito nella vicenda dei suoi leader che loro hanno bisogno di poco altro, quando negoziano in Europa. Ieri Osborne, 44 anni, figlio di un magnate della carta da parati, in linea di successione per diventare il diciottesimo baronetto della sua famiglia in quattro secoli, ne ha dato dimostrazione in qualche ora di visita a Roma. «Mia nonna veniva da Budapest» ha detto il ministro di Londra, riferendosi alla celebre pittrice Clarisse Loxton-Peacock che si ispirava alle nature morte di Giorgio Morandi. Il richiamo di Osborne alla nonna ungherese, ieri all’Aspen Institute di Roma, non ha avuto niente di casuale: «Noi in Gran Bretagna non cerchiamo di fermare il libero movimento delle persone in Europa. Il problema è il diffondersi della cultura di chi vuole ottenere qualcosa in cambio di niente», ha detto. In altri termini, l’uso del welfare in Gran Bretagna da parte dei migranti disoccupati del resto d’Europa. «C’è bisogno di un freno di emergenza nelle fasi di emigrazione intensa. Se le persone non lavorano – ha tagliato corto Osborne – allora tornano nei loro Paesi».
Nessuno nella sala cinquecentesca su piazza Navona, gremita di grand commis e ministri dei governi italiani degli ultimi vent’anni, ha fatto notare a Osborne un dettaglio essenziale: la sua pretesa di poter sospendere l’accesso al welfare agli europei che vivono da meno di quattro anni nel Regno Unito colpirebbe quasi duecentomila italiani. Pier Carlo Padoan sedeva accanto a Osborne ieri all’Aspen Institute; ma è difficile immaginare che una platea dell’establishment britannico avrebbe lasciato correre, se il ministro dell’Economia di Roma si fosse presentato a Londra con un’idea del genere per un numero simile di sudditi di Sua Maestà residenti in Italia.
Forse, semplicemente, è abilità negoziale. Il viaggio di Osborne è una tappa di una campagna magistralmente orchestrata dal suo governo per ottenere quanto pochi mesi fa appariva impensabile: una serie di sfacciate demolizioni dei principi di coesistenza nell’Unione europea, come prezzo per sostenere la permanenza di Londra nel club durante la campagna referendaria sulla secessione (la «Brexit») prevista in estate. Poche ore prima Donald Tusk, il presidente del Consiglio europeo, aveva diffuso una bozza che dovrebbe aprire la strada per quell’accordo. Tornano in gioco l’antica richiesta britannica di un diritto di veto su decisioni sgradite dell’area euro, e la dignità di radice ottocentesca della sterlina; spunta la possibilità per una coalizione di parlamenti nazionali di bloccare proposte di legge della Commissione; si apre la via all’opzione di sospendere i diritti di welfare di cittadini europei in Gran Bretagna (e altrove) nei periodi di forti migrazioni. «Se arriviamo a un accordo – ha detto ieri Osborne – avremo un’Unione più forte e riformata in profondità. Spero che l’Italia guardi bene l’accordo e capisca che così contribuirà a un’Europa migliore». La chiave del messaggio del cancelliere non è che il suo governo ha disperatamente bisogno di aiuto per uscire dal vicolo cieco del referendum sulla Brexit nel quale si è cacciato. Piuttosto, Osborne ha spiegato che da Londra arriva una ventata di aria fresca. «Abbiamo presentato le nostre idee non solo come qualcosa che riguarda il Regno Unito, ma tutti i Paesi. Certo, le nostre proposte vengono incontro a questioni che ci interessano – ha concesso il numero due e amico personale del premier David Cameron —. Ma pensiamo che possano venire incontro a preoccupazioni presenti anche altrove». Un esempio per Osborne riguarda la limitazione degli assegni sui figli minori, che potrebbero essere sospesi per gli europei che vengono a vivere in Gran Bretagna solo per ottenerli. «Su questo abbiamo trovato molta comprensione anche in altri governi, per esempio quello danese».
In parte però il ministro britannico ha argomenti più solidi: «La tragedia dell’Unione europea è che Mario Monti mi presentò i suoi piani per un vero mercato unico europeo e per nuovi accordi di apertura agli scambi anni fa – ha detto —. Da allora non si è fatto nulla. Se non esistono dei colossi italiani o britannici di Internet, è anche perché non hanno un mercato unico di 500 milioni di persone».
Per l’establishment romano che ieri ha tempestato Osborne di domande all’Aspen e poi all’ambasciata britannica, è stata una lezione su come si negozia in Europa. Non arriva troppo presto. La richiesta italiana a Bruxelles di poter aiutare le banche a smaltire i problemi della recessione è poca cosa rispetto a quanto pretendono Cameron e Osborne per evitare la Brexit. Se non è passata, è anche perché l’Italia è senza alleati. Eppure dalle parole dell’emissario di Londra ieri è emerso lo spazio per un patto di reciproca utilità con Roma: «La zona euro non deve poter imporre le sue decisioni sulla Gran Bretagna – ha detto Osborne —. Con la proposta di Tusk abbiamo fatto progressi, ma vanno messi a posto i dettagli, c’è molto lavoro da fare. Dobbiamo arrivare a un rapporto corretto fra chi è dentro e chi è fuori dall’euro, vogliamo che il ruolo della sterlina sia riconosciuto». Il cancelliere ha anche sottolineato la «forte amicizia con l’Italia» e «le molte dimensioni sulle quali i nostri due Paesi lavorano insieme».
È sicuro, dopo la tournée romana di ieri, che l’élite e il governo italiano aiuteranno Osborne di fronte al resto d’Europa. È dubbio che gli sia stata chiesta una mano in cambio per ammorbidire l’atteggiamento diffuso a Bruxelles sulle banche italiane. Ma magari, chissà, non è troppo tardi.