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 2016  gennaio 19 Martedì calendario

I sessantadue miliardari ricchi come mezzo mondo (ma forse questi calcoli sono esagerati)

Massimo Gaggi per il Corriere della Sera
I 62 miliardari più ricchi del mondo concentrano nelle proprie mani risorse pari a quelle messe insieme dalla metà più povera della popolazione del pianeta. La polarizzazione dei redditi che schiaccia ceti medi e proletariato mentre produce fortune incredibili in cima alla piramide della ricchezza, non è certo una novità. Negli Usa 5 anni fa il movimento Occupy Wall Street nacque dalla mobilitazione del 99% dei cittadini contro l’1%, la cui ricchezza è pari a quella di tutto il resto della popolazione.
I dati pubblicati ieri dagli attivisti di Oxfam alla vigilia del Forum economico di Davos, quest’anno dedicato alla Quarta rivoluzione industriale che stravolge il mercato del lavoro, vanno, però, più in là: dimostrano che il processo di concentrazione del reddito nelle mani di pochi procede, rendendo gli squilibri nella distribuzione della ricchezza sempre meno sostenibili. Dal 2010 al 2015 il patrimonio dei 62 super ricchi è cresciuto del 44% raggiungendo i 1.760 miliardi di dollari (a partire dai 79 miliardi di Bill Gates che guida la classifica) mentre il reddito della metà più sfortunata del mondo si è ridotto del 41%.
Ma i più poveri sono davvero sfortunati che sono stati ingiustamente diseredati? Fino a qualche tempo fa gli economisti hanno attribuito questi squilibri crescenti a fattori che hanno a che vedere soprattutto con l’efficienza del mercato: la globalizzazione che mette i lavoratori dei Paesi ricchi in concorrenza con quelli delle nazioni più povere o la tecnologia che automatizza i processi produttivi eliminando interi settori d’impiego. Mutamenti socialmente devastanti che, però, nascerebbero da normali meccanismi di mercato. Da qui le ricette più diffuse negli ultimi anni: una correzione di questi trend affidata a un miglioramento della formazione professionale e ad ammortizzatori sociali per i lavoratori vittime della rivoluzione tecnologica.
Oxfam, invece, va oltre: punta il dito contro i «paradisi fiscali» e contro le grandi imprese che comprimono i salari ed eludono il pagamento di centinaia di miliardi di dollari di tasse coi quali i governi potrebbero alimentare reti di protezione sociale e sostenere una politica di redistribuzione dei redditi. Sortita interessante nel contesto di Davos perché molte delle multinazionali messe sotto accuse da Oxfam, ong internazionale per lo sradicamento della povertà basata in Gran Bretagna, sono anche sponsor della manifestazione svizzera. La denuncia non sorprende perché di recente è cresciuto il numero degli economisti che hanno smesso di considerare gli squilibri come frutto solo di fenomeni di mercato (concorrenza dei Paesi con un basso costo della forza-lavoro, competenza del personale, automazione che riduce il numero degli occuparti, deregulation che rende il sistema più efficiente e premia solo i «vincenti») aggiungendo anche il fattore di un cambiamento nel modo di usare il potere. Politico e non.
Il ripensamento partito da economisti di sinistra in Francia (Thomas Piketty), Gran Bretagna (Anthony Atkinson) e Stati Uniti (da Robert Reich a Paul Krugman passando per Joseph Stiglitz), si sta allargando anche ad esperti che fin qui hanno privilegiato la giustificazione tecnologica degli squilibri: da David Autor a Lawrence Katz fino a due figure «istituzionali» come il capo dei consiglieri economici di Obama, Jason Furman, e il suo ex ministro del Bilancio Peter Orszag, oggi banchiere di Citigroup.
E i miliardari? Quelli più sensibili si sono messi a posto la coscienza con donazioni più o meno estese. Ma, come dimostrano casi come quello di Mark Zuckerberg di Facebook (azioni filantropiche fallite e ora la pretesa di fare politica scolastica attraverso la beneficenza), non può essere questa la strada verso un riequilibrio che diventa sempre più necessario.

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Ferdinando Giugliano per la Repubblica
Misurare le diseguaglianze delle ricchezze è un esercizio tanto affascinante quanto difficile. Nella maggior parte dei Paesi del mondo non esistono infatti delle anagrafi patrimoniali, da cui gli economisti possano attingere per calcolare questo tipo di disparità. I dati sul reddito sono, invece, ben più semplici da trovare: basta chiedere ai governi, che praticamente ovunque tassano i cittadini sulla base di quanto guadagnano ogni anno.
Questo problema metodologico ci deve rendere cauti quando ci avviciniamo a qualsiasi studio che sostenga di aver registrato un nuovo record negli squilibri patrimoniali tra l’ormai famigerato “1 per cento” e tutti gli altri. Dal bestseller di Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, che più di ogni altro lavoro ha colto lo Zeitgeist egualitario della nostra epoca, allo studio di Oxfam di questa settimana, non vi è ricerca che possa dirsi immune da una sostanziale incertezza statistica.
L’ultimo invito alla prudenza arriva da un lavoro di Luigi Guiso, professore di economia all’Istituto Einaudi di Roma, e di tre suoi collaboratori, presentato solo qualche settimana fa agli incontri di San Francisco della American Economic Association, la più prestigiosa società scientifica della disciplina.
Lo studio utilizza dati provenienti dalla Norvegia, uno dei pochi Paesi del mondo a raccogliere informazioni sia sul patrimonio sia sul reddito dei suoi cittadini. Questa peculiarità permette a Guiso e colleghi di confrontare l’andamento effettivo della diseguaglianza dei patrimoni con il trend che si ottiene provando a ricostruire la ricchezza a partire dai dati sul reddito, una strategia alternativa indiretta utilizzata in passato sia da Piketty, sia da suoi collaboratori come Emmanuel Saez e Gabriel Zucman.
Lo studio, di prossima pubblicazione per il National Bureau of Economic Research, mostra come partire dai dati sui redditi possa portare a sovrastimare le disparità. Per esempio, nel caso norvegese, si finisce per attribuire all’1 per cento o al 5 per cento più ricco una quota del patrimonio nazionale più alta di quella che realmente possiede. Altre misure, per esempio quella relativa alla porzione di ricchezza dell’1 per mille più facoltoso, vengono invece sottostimate.
Non esistono alternative perfette: le indagini campionarie, come quella condotta in Gran Bretagna dall’Ufficio nazionale di statistica, tendono di solito a minimizzare il gap. La ragione è semplice: i più ricchi tendono spesso a mentire sulla reale entità del loro patrimonio, mentre i poveri sono generalmente più onesti nel compilare il questionario.
Lo scetticismo è pertanto d’obbligo, soprattutto quando si ha a che fare con studi transnazionali come quello di Oxfam o che coprono lunghi periodi storici come quello di Piketty. La diseguaglianza è un tema troppo importante per essere ignorato, ma anche per essere discusso tralasciando le difficoltà che esistono nel misurarla.