Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 29 Martedì calendario

L’Arabia Saudita paga a caro prezzo il crollo del petrolio

L’Arabia Saudita sta pagando a caro prezzo l’ostinazione con cui ha impedito all’Opec di tagliare la produzione petrolifera, palesemente in eccesso rispetto alla domanda. Il crollo delle quotazioni del greggio, conseguente al mantenimento dei livelli di output, sta prosciugando le finanze di Riyad. Con il risultato che il buco nei conti si va allargando: il 2015 si chiuderà con un disavanzo pari a 98 miliardi di dollari, prodotto da entrate per 162 miliardi non sufficienti a compensare i 260 miliardi di spese. Il deficit è ovviamente causato dal crollo dei ricavi garantiti dal greggio, in discesa del 73% a poco più di 113 miliardi. Nel corso dell’anno, i sauditi sono già dovuti correre ai ripari più volte per tamponare le falle che si aprivano in bilancio. Lo strumento più utilizzato è stato il classico prelievo, tipo bancomat, dalle riserve valutarie, calate per una cifra attorno agli 80 miliardi; l’altra misura è stata l’immissione sul mercato di bond per un controvalore di 20 miliardi. Anche se Riyad non fornisce dati ufficiali, è assai probabile che pure il fondo sovrano saudita sia stato usato come serbatoio da cui attingere liquidità. Le ultime cifre a disposizione sui flussi d’investimento segnalavano infatti una diminuzione del patrimonio dai 757 miliardi di inizio anno ai 668 miliardi di novembre. Non una buona cosa per le Borse mondiali.
In base alle previsioni governative, la situazione migliorerà solo parzialmente nel 2016, quando il deficit dovrebbe attestarsi a 87 miliardi grazie al contenimento delle uscite (224 miliardi). Accogliendo l’invito del Fondo monetario internazionale a diversificare le fonti di entrata e ridurre le spese, il re Salman ha annunciato riforme economiche che potrebbero portare a un aumento dell’Iva e al rincaro dei servizi pubblici. Ma ciò potrebbe non bastare se continuerà la picchiata delle quotazioni. Ieri a New York il Wti è sceso sotto i 37 dollari il barile, mentre a Londra il Brent veniva scambiato a 36,75 dollari. Fino al prossimo giugno, l’Opec non tornerà a riunirsi. I livelli di output sono ufficialmente fissati a 30 milioni di barili al giorno, ma questa quota viene già sforata di almeno due milioni di barili; nel 2016 si dovrà inoltre aggiungere il milione dell’Indonesia e il mezzo milione iraniano. Con una richiesta calante a causa della frenata dei Paesi emergenti, è da mettere in conto un ulteriore indebolimento dei prezzi, che alcuni analisti collocano tra i 25 e i 30 dollari.
Insomma: una situazione d’emergenza, per molti Paesi produttori. La Russia, che ha visto calare il Pil del 3,8% nei primi 11 mesi per effetto del cheap oil, punta il dito proprio contro Riyad: «Quest’anno – ha detto il ministro dell’Energia, Alexander Novak – l’Arabia Saudita ha aumentato la produzione di 1,5 milioni di barili al giorno: questo ha destabilizzato la situazione sul mercato petrolifero».