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 2015  dicembre 29 Martedì calendario

In morte di Ellsworth Kelly

Vincenzo Trione per il Corriere della Sera
L’epilogo ha il valore di un ripensamento. L’ultimo ciclo di opere di Ellsworth Kelly – morto all’età di 92 anni nella sua casa di Spencertown, a nord di New York – è un inatteso omaggio a Monet. L’inconfondibile rigida sintassi che da sempre ha caratterizzato il suo stile puritano sembra dissolversi dentro monocromie vaporose, quasi materiche, ispirate alle vibrazioni luministiche delle Ninfee dipinte dal padre dell’impressionismo. 
Eppure, dietro quelle tele nebulose – esposte lo scorso anno presso il Clark Art Institute di Williamstown – si possono ancora cogliere tracce della filosofia sottesa alla ricerca di questo ostinato minimalista, per il quale fare arte significa essenzialmente «giocare» con i colori e con le forme. «That’s it», ha detto in una recente intervista. Alludendo alla sua volontà – maturata sin dall’immediato secondo dopoguerra (quando si trasferisce a Parigi, prima di tornare a New York) – di scarnificare la pittura, liberandola da ogni scoria emotiva, fino a renderla impersonale, espressione di se stessa. Per giungere a una «percezione non percepita» (Argan). 
Iscrivendosi in quella frastagliata cartografia della linea analitica dell’arte del Novecento (che è stata indagata da Filiberto Menna), Kelly vuole destrutturare il codice rappresentativo. Impegnato a ridurre la costruzione dell’opera a unità linguistiche prive di significati denotativi e connotativi, a una serie di dati elementari, finiti e costanti, si confronta con la tela, per affermare l’autonomia strutturale del medium di cui si serve. Aspira a trasformare l’arte in un sistema esatto, spogliandola di ogni «maschera», al di fuori di ciò che ne costituisce l’anima: il colore. Pensa perciò il suo mestiere come painting. Come gesto capace di prescindere da ogni suggestione veristica. In sintonia con personalità come Stella, Judd e Noland, Kelly vive un’avventura poetica radicale. Mira a mettere in rilievo le regole dell’organizzazione sintattica della sua pratica, decostruendo il principio di somiglianza, per spingersi verso il grado zero della comunicazione. Lungi dal raffigurare gli aspetti fenomenici in maniera diretta, ordina esercizi tautologici, «cromofobi», basati su stesure compatte e omogenee di tinte-luce artificiali, brillanti. Esercizi che recentemente hanno raggiunto quotazioni molto elevate (ad esempio, Red Curve V del 1982 è stato venduto nel 2014 per 4.477.000 dollari). 
Protagonista dell’Hard-Edge painting, legato alla matrice del costruttivismo europeo, affidandosi alla tecnica dell’ all over (a tutto campo) e dando voce al desiderio di bigness (grandi dimensioni) tipicamente americano, Kelly dispone i suoi monocromi su monumentali pannelli di legno. Composte da segmenti colorati e sovrapposti, contraddistinte da perimetri enfatizzati, le sue opere non lasciano trasparire nessuna soggettività. Dichiara: «La forma della mia pittura è il contenuto. Il mio lavoro si compone di pannelli singoli e multipli: rettangolari, ricurvi o quadrati. Mi interessa di più la “presenza” dei pannelli che i segni sui medesimi». 
E, tuttavia, Kelly non si porta mai verso le vette di un’ «iconografia senza icone» (Barbara Rose). Profondamente radicato nelle culture dell’espressionismo astratto, non smette di riprendere motivi realistici. Spesso si fa guidare dall’incontro con frammenti di quotidianità: l’ombra di un albero, l’interstizio che separa due edifici. Ma non trascrive mai fedelmente quelle rivelazioni. Preferisce assumerle, sottoporle a un processo di estrema formalizzazione. E, infine, dissolverle in una stabile architettura fatta di linee nette e di colori che detengono una forte evidenza. 
Dinanzi a noi è un fingitore, ancora innamorato di metafore e di analogie. Pur ricorrendo a un bagaglio espressivo privo di espliciti riferimenti contenutistici, Kelly tende a rinviare al visibile per barlumi minimi: evoca l’affiorare di totalità perdute attraverso annotazioni elusive. In maniera più o meno implicita, attinge alle emozioni suscitate dal confronto con la realtà. Nelle sue tele, spesso, trattiene intermittenze. Filtra le occasioni dalle quali è sollecitato, per riportarle in modo inesatto e, infine, renderle illeggibili. Arriva così a saldare soggettività della visione e oggettività della trasposizione. 
Il dialogo con le imperfezioni del presente affiora anche nella scelta di questo «geografo cosmico» (come lo ha definito Jerry Saltz) di proporre geometrie taglienti, con forme sagomate ma irregolari, esaltate da misure variabili e da contrasti decisi ottenuti tramite cromie vivide e uniformi. Ci viene svelata una semplicità ingannevole e astuta, debitrice di alcune intuizioni di Mondrian. L’intento è quello di imporre un ritmo all’epica minimalista, fino a renderla addirittura dissonante, quasi mimando gli errori che scandiscono la nostra esistenza. In filigrana, le inquietudini di un artista che non ha mai creduto in un’astrazione radicale e senz’anima. 
Forse, è stato proprio questo desiderio di continuare a interrogare il mondo ad aver spinto Kelly, negli ultimi anni, a riscoprire Monet. La reinvenzione delle Ninfee: il suo addio all’arte.

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Lea Mattarella per la Repubblica
«La forma della mia pittura è il suo contenuto», diceva Ellsworth Kelly, artista americano scomparso domenica all’età di 92 anni nella casa di Spencertown, a nord di New York, dove viveva con il fotografo Jack Shear, suo compagno da più di 30 anni. È qui, nel grande atelier che i due dividevano, che Kelly ha continuato a lavorare fino alla fine, dando vita al suo mondo di audaci geometrie colorate dai contorni ben definiti, hard edge come li definirà la critica. Creativo fino all’ultimo, nonostante da diverso tempo fosse collegato a una macchina per l’ossigeno. «Non ho mai fumato, deve essere stata la trementina», aveva detto in una recente intervista. «Un altro gigante è andato. Intenso splendore attraverso una semplicità ingannevole. Mago della linea astuta», ha twittato Simon Schama alla notizia della scomparsa.
Nato nel 1923, a Newburgh, New York, cresciuto in Oradell nel New Jersey, Ellsworth è un ragazzino problematico, solitario, attratto dal birdwacthing, che a un certo punto decide di diventare artista, studiando prima al Pratt Istitute di Brooklyn e successivamente alla School of the Museum of Fine Arts di Boston. Dal 1943 al 1946 presta servizio nell’esercito americano e nel 1948, grazie a una borsa di studio per ex combattenti, si trasferisce a Parigi. Mentre il centro dell’arte si sta spostando dall’Europa agli Stati Uniti, Kelly compie il percorso contrario. Ma è all’ombra della Tour Eiffel che inizia a definire il suo linguaggio. Prima di allora aveva dipinto opere figurative come
Autoritratto con tromba che lui stesso definisce influenzate dall’espressionismo tedesco. Sembra che, dopo averlo mostrato a Fernand Léger, questi lo avesse invitato a tornarsene a casa a suonare il suo strumento. E invece l’ostinato Kelly resta, si guarda intorno, si innamora della sintesi di Picasso, della linea curva di Matisse, del biomorfismo di Miró e di Jean Arp. E dipinge
Window 1, una tela bianca su cui si staglia semplicemente il telaio di una finestra. Lo attrae la forma, non l’idea di affacciarvisi, né tanto meno di guardarvi dentro. È affascinato dalla sua proporzione ed è questa che domina nel quadro. L’aspetto è quello di un’opera astratta, ma il punto di partenza è la realtà. E questo elemento rimarrà una costante del suo lavoro. «Le forme trovate nella volta di una cattedrale o in una lastra d’asfalto di un piano stradale sembravano più valide e istruttive, un’esperienza più sensuale della pittura geometrica. Invece di fare un quadro che fosse l’interpretazione di qualcosa che vedevo o la rappresentazione di un contenuto inventato, trovai un oggetto e lo presentai così com’è», raccontava per spiegare la nascita dei suoi dipinti e delle sue sculture. Nel 1951 piccoli rettangoli e quadrati in bianco e nero danno origine a Seine: è il suo modo di afferrare l’attimo, di dipingere i riflessi della città sull’acqua del fiume che vede dalla casa nell’Île Saint-Louis dove abitava. Non a caso durante il suo soggiorno francese visita la casa-giardino di Claude Monet a Giverny. Ellsworth Kelly in effetti è stato un ponte: tra passato e presente, tra arte europea e arte americana. Dopo esser tornato a New York, nel 1956 espone per la prima volta da Betty Parson, la stessa galleria di Jackson Pollock. Ma non sente alcuna affinità con gli artisti dell’action painting. Considera la pittura americana del suo tempo “troppo personale”. Più tardi dirà di aver voluto fare «un lavoro anonimo, come gli antichi maestri». Se immagina un sodale è Frank Stella, con i suoi quadri a strisce. Quando lo vede nel 1959 dichiara: «Questo è il primo artista da quando sono tornato a New York che capisce ciò che penso». Entrambi indicheranno una strada percorribile ai grandi maestri del minimalismo. Kelly, intanto, ha trovato la sua: il colore puro e steso in modo uniforme è il protagonista di tele sagomate in forme semplificate in cui non c’è più separazione tra pittura e scultura; partiture che fino a ieri hanno suonato piccole variazioni di angoli retti, curve sicure, incastri e armonie dentro le quali ci si può illudere che non esista il disordine del caso.