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 2015  dicembre 29 Martedì calendario

Il voto in Spagna è una lezione per l’Italia

Passano i giorni e la Spagna è ancora senza governo. Quella Spagna che era abituata a conoscere l’identità di chi l’avrebbe guidata nei prossimi anni la «sera stessa del voto», è stata costretta – come capitava a noi nella Prima Repubblica ed è accaduto di nuovo nel 2013 – ad abbandonare questa consuetudine. Perché?
A partire dal 1982 socialisti e popolari si spartivano più dell’80 per cento dei voti e (grazie all’effetto maggioritario del sistema a piccole circoscrizioni) fino al 90 per cento dei seggi. A turno socialisti o popolari governavano e gli altri guidavano l’opposizione. Adesso quell’80 per cento ce lo hanno in quattro: due domeniche fa, Psoe e Podemos hanno avuto, sommati, il 42,7, Popolari e Ciudadanos il 42,6. Una mela spaccata a metà, ma in quattro spicchi. Sicché, per governare, qualcuno di loro dovrà stringere alleanze a cui
tutti si erano dichiarati più o meno indisponibili.
Da noi qualcuno esulta: la Spagna dovrà ora apprendere quella che Roberto Ruffilli chiamava «la cultura delle coalizioni» (Gianfranco Pasquino). Ma non è proprio così. Un conto sono le «coalizioni naturali», quelle basate su un programma comune, che vengono prospettate agli elettori prima del voto. Altra storia è quella delle «grandi coalizioni» che si può essere costretti a fare a seguito di un risultato elettorale incerto, tale da non consentire a nessun partito di governare da solo o in una «coalizione naturale».
Q uesto genere di «grandi coalizioni», tra l’altro, assomigliano assai poco alla Grosse Koalition che governò la Germania tra il 1966 e il 1969 o a quella guidata in anni più recenti da Angela Merkel. Sono piuttosto accrocchi di emergenza come quelli che hanno sostenuto in Grecia Antonis Samaras (2012-2015) e in Italia Mario Monti (2011-2013) i quali, indipendentemente da come hanno governato, hanno avuto l’effetto di dar fiato alle formazioni anti sistema di Alexis Tsipras e Beppe Grillo, proprio perché Tsipras e Grillo si presentavano da antagonisti delle suddette combinazioni di governo.
Le cosiddette «grandi coalizioni» sfavoriscono inevitabilmente il partito di sinistra che ad esse partecipa (i socialisti sono usciti distrutti dall’accordo con la Merkel in Germania e con Samaras in Grecia) e favoriscono partiti e movimenti che le hanno osteggiate. I sistemi elettorali a doppio turno nascono per ovviare a questo inconveniente e trasformare le maggioranze relative in maggioranze assolute (in voti e in seggi). Perciò è difficile da comprendere la ricorrente obiezione: a Matteo Renzi e ai suoi ministri interessa solo che ci sia un vincitore chiaro, non che il vincitore rappresenti la maggioranza dei cittadini (Luca Ricolfi). Questo, come ha efficacemente sottolineato ieri su queste colonne Angelo Panebianco, accade in tutti ma proprio tutti i Paesi che hanno sistemi non strettamente proporzionali, anche da noi ai tempi del Mattarellum (1993-2005). E la maggioranza conquistata al secondo turno «vale» quanto il voto ottenuto al primo. Se la Spagna avesse avuto un secondo turno, oggi Madrid avrebbe un governo grazie proprio al voto della «maggioranza dei cittadini». Mentre, in assenza di quel sistema, la Spagna dovrà procedere con (finte) grandi coalizioni costrette a governare alla giornata e dovrà lasciare all’opposizione forze destinate a gonfiarsi alla prossima verifica nelle urne.
C’è infine chi paventa il rischio che con il doppio turno all’italiana «il primo populista» ne approfitti per arrivare a Palazzo Chigi (Sofia Ventura). Reso più esplicito, vuol dire che se in Francia va, sia pure per pochi voti, al secondo turno il Front National o in Italia il Movimento Cinque Stelle, può accadere che poi una di queste forze anti sistema vinca le elezioni. È così. Ed è normale che sia così. Anzi, è giusto che sia così. Del resto, l’intero centrosinistra (a partire da Pier Luigi Bersani ma, con lui, tutto il Pd) ha fatto del doppio turno un mantra per oltre un ventennio. Consapevole – immaginiamo – che avrebbe potuto passare al secondo turno e poi vincere Silvio Berlusconi. O, adesso, Matteo Salvini. Perciò, diciamocelo con la dovuta chiarezza, sarebbe un grave errore cambiare ora il modo di votare per impedire l’eventualità che qualcuno sia messo in condizione di governare così da costringerlo a piegarsi a coalizioni di emergenza. L’attuale sistema elettorale è stato consacrato dai due rami del Parlamento dopo dieci anni in cui non si riusciva a cambiare quello precedente – nonostante anche coloro che lo avevano dato alla luce dicessero di volerlo modificare – e a seguito di una sentenza della Corte costituzionale che ci ha imposto di procedere in tal senso. Se lo cambiassimo prima di averlo sperimentato almeno una volta, sarebbe un unicum che non ha precedenti nella storia e daremmo l’impressione (anzi, la certezza) che lo si è fatto non per migliorare le modalità di voto ma contro qualcuno che è già in campo.
Per carità, non riapriamo dunque il capitolo della riforma elettorale. Tanto più che ormai il dibattito, in materia, si è evoluto in modi imprevedibili. Nel mondo alla Huxley descritto in Veni Vidi Web di Gianroberto Casaleggio (edizioni Adagio) «si vota on line, ogni cinque anni, per una nuova costituzione», tutte le decisioni pubbliche sono «prese attraverso un referendum e leggi di iniziativa popolare» sotto la guida di «ministeri della Pace, della Vita e della Giovinezza» che, come tutte le altre «cariche politiche e istituzionali», saranno occupate da «cittadini estratti a sorte». Questo, precisa Casaleggio, non è ancora il programma del Movimento Cinque Stelle. Ancora per poco.