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 2015  dicembre 28 Lunedì calendario

Jaroslav Drobny, la storia di un uomo che fu tale non solo nel tennis

Non trovavo più la palla. Sul campo centrale Porro Lambertenghi, che aveva accolto le mie speranze di provinciale inurbato, sotto gli occhi del Conte Alberto Bonacossa, che mi aveva accolto senza che pagassi l’abbonamento al grande Tennis Club Milano, di fronte ai Signori Soci e, in un angolo, una ragazzina, Francesca, con la quale ci facevamo gli occhi dolci, stavo facendo la prima figuraccia della mia vita.
Dall’altra parte c’era sì un campione, un tipo di nove anni più vecchio di me, uno che avevo già visto a Saint Moritz, su un fondo di ghiaccio, impugnare uno strumento diverso dalla racchetta, un bastone da hockey, nella squadra cecoslovacca che avrebbe vinto l’argento nelle Olimpiadi del 1948. Questo tipo solido, biondastro, con gli occhiali, questo cecoslovacco mancino, che tirava sassate con la battuta e il diritto, mi avrebbe lasciato un solo gioco e indotto alla vergogna per la cattiva figura di fronte ai miei consoci. Io, che a 17 anni ero uno dei due primi juniores d’Italia, io che già pensavo di passare in Prima Categoria, io che di tennis speravo di diventare un campione. Parlavo pochissimo l’inglese, ma negli spogliatoi, dopo la doccia, Drobny mi incoraggiò, cercò di spiegarmi che, già andato a Wimbledon da ragazzo, ne era rimasto anche lui scioccato quanto mi sentivo.
Mi parlò poi dei suoi anni di guerra, quando a Praga non avevano abbastanza pane, e delle speranze presto svanite, sotto un governo che, se non eri comunista, nemmeno ti lasciava giocare a tennis. Tutto ciò non poteva non sollevarmi dall’umiliazione, e mi spinse a pensare alle mie fortune di giovane borghese, in grado di giocare i tornei grazie alla fortuna familiare e di viaggiare senza controlli politici. L’umiliazione di quella sconfitta svanì, sebbene non del tutto, in seguito al nostro dialogo, al termine del quale offrii in segno di amicizia il mio accappatoio a Drobny, che non possedeva che una striminzita salviettina. «Call me Jaro», mi sorrise, e così terminò la vicenda, in seguito alla quale cominciai a capire che non si doveva vivere per essere primi, se il destino aveva diversamente deciso. Avrei di nuovo incontrato il grande tennista, che nel contempo aveva trovato modo di battere, a Wimbledon, nientemeno il Campione del Mondo Jack Kramer 2-6, 17-15, 6-3, 3-6, 6-3 ad uno dei miei primi tornei internazionali, nell’ospitale Svizzera di Gstaad.
Ci fu una festa, nel Grand Hotel che ci ospitava, nel 1949, dopo la quale finimmo, chissà perché, nella grande stanza che ospitava me e il mio partner Fausto Gardini. E, nell’ebbrezza generata dal cognac, vedemmo incredibilmente Drobny e il suo partner Cernick estrarre i loro passaporti, e farli a brani, scagliandone i resti nel water. Da quel giorno la vita di Drobny si tinse di cupa incertezza, poiché, rifiutata la cittadinanza cecoslovacca, gli fu difficile viaggiare, ottenere visti su un documento nel quale si dichiarava apolide, sinchè non gli venne in aiuto il Monarca egiziano, Re Faruq, fortunatamente appassionato di tennis. In cambio Jaroslav difese i colori di quel paese che non aveva mai avuto un campione, e prese almeno a viaggiare, senza difficoltà. L’avrei ritrovato nel torneo estivo di Cortina, allora di moda grazie all’ospitalità dell’Hotel Miramonti, e sarei sceso in campo, contro di lui, sperando soltanto di evitare una vergognosa punizione, come quella del nostro primo incontro. Perso un dignitoso primo set, mi trovai sorprendentemente avanti nel secondo, sinchè, a 6-5 a mio favore, Drobny mi si rivolse, al cambio di campo, per dirmi «Puoi chiedere tu da bere in italiano, che il match diventa lungo?».
«Non penso che durerà molto» risposi, nel domandare una bottiglia di acqua minerale e, nel giro di pochi minuti, ero già stato battuto, per 8 a 6. Ricordo le parole di Jaro: «Se non hai fiducia in te stesso ti sarà impossibile vincere», e ancora gliene sono grato. L’avrei rivisto tante volte, Drobny, nella mia nuova attività di giornalista, parallela a quella di modesto giocatore. L’avrei soprattutto ammirato in uno storico match di Wimbledon, contro un nostro comune amico, Budge Patty, chiamato, ai tempi, l’Americano di Parigi. Il gioco dei due, entrambi attaccanti, e grandi battitori, rendeva difficile il break, e in quella edizione di Wimbledon rimasi ad ammirare sino al calar del sole una meravigliosa battaglia di serve and volley, che continuò per 93 games, e che Drobny vinse 12-10 al 5°, dopo aver annullato 6 match points.
Non era difficile, a quei tempi, accedere agli spogliatoi, e fui contento di potermici recare per stringere la mano a Budge Patty e abbracciare Drobny, dicendogli «Stavolta ce la fai, Jaro».Una sorta di complesso d’inferiorità aveva infatti tenuto Drobny lontano dal successo a Wimbledon, mentre era già riuscito a vincere 2 volte – ‘51 e ’52 – Roland Garros, e tre volte a Roma – chiamata, a quei tempi il Quinto Slam – nel ‘50, ‘51 e ‘53. Jaroslav dovette tuttavia attendere quel ‘54, e una felice circostanza umana, il matrimonio con la tennista britannica Rita Anderson che gli propiziò la richiesta del passaporto inglese, per fugare il complesso che l’aveva tenuto lontano dalla maggiore affermazione del nostro giuoco. Ricordo di avergli detto che quell’anno, il suo undicesimo Wimbledon, e la testa di serie numero 11, potevano portargli fortuna. L’avevo suggerito – e scritto – un giorno in cui l’avevo visto allenarsi, come al solito al servizio, colpendo una scatoletta piazzata nel rettangolo di ribattuta. Battè il piccolo, geniale Rosewall, nella finale più lunga, sino a quei tempi, 2 ore e 37, per 13-11, 4-6, 6-2, 9-7. E si ritirò, ma non smise di giocare. Ogni anno, la prima domenica di Wimbledon, eravamo insieme ospiti di un ex-cecoslovacco, l’amico Robert Reichmann, eroe della battaglia aerea di Londra, che si era stabilito in una villa dotata di uno splendido campo verde. Lì ritrovavamo il piacere di essere insieme amici e avversari, e di conquistare la bottiglia di champagne che il nostro amico Reichmann metteva in palio. Questa nostra festa continuò sino al settembre del 2001, quando mi vidi costretto a seguire il suo funerale. Il funerale di un uomo che fu tale non solo nel tennis.