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 2015  novembre 28 Sabato calendario

Dove vuole arrivare Pavoletti, l’operaio del gol?

Facciamo una scommessa? All’Europeo di giugno in Francia, Leonardo Pavoletti sarà tra le punte a disposizione di Conte. Non tanto perché il c.t. già lo tiene d’occhio o per la strepitosa media realizzativa – 9 gol nelle ultime 13 partite giocate in A (5 in 9 in questo campionato) – tenuta dal centravanti del Genoa, quanto perché Pavoloso, come è stato ribattezzato dai tifosi rossoblù, incarna il giocatore-tipo ricercato dall’allenatore della Nazionale: disciplinato, generoso, combattivo. Un soldato che si fa il mazzo per i compagni. Tutto il contrario di quello che si crede debba essere un attaccante, votato all’esclusiva ricerca del gol. «Sono un altruista, uno disposto al sacrificio», conferma lui. A dispetto dei suoi 188 centimetri, il 26enne nato a Livorno ama stare nell’ombra. Tanto che ci ha pensato su un po’, prima di dire sì a questa intervista.
E noi che credevamo volesse atteggiarsi già a primadonna... «Macché. È che non mi piace apparire. Non serve: se fai bene sul campo di calcio non hai bisogno di troppe parole. Soltanto coi fatti fai cambiare idea alle persone».
È il momento migliore della carriera?
«Nel rapporto tra minuti giocati e gol realizzati sì, almeno a livello così alto. Ma nel campionato scorso giocavo meglio. E, insieme a me, la squadra».
Perché?
«Questo è un gruppo che ha caratteristiche differenti. Un anno fa ognuno di noi sapeva come stare e cosa fare in campo, ma se la partita girava male ci perdevamo. Quest’anno abbiamo più carattere. Non molliamo mai. Il gioco arriverà: abbiamo tanti nuovi, ci vuol tempo».
Lei si accontenterebbe di emulare le gesta in rossoblù di Borriello, o punta più in alto, a Milito?
«Milito a Genoa è il Principe...».
E Pavoletti, oggi, chi è?
«Un operaio del gol che sta lavorando per un futuro migliore».
Ha ragione chi dice che lei è diventato calciatore per sbaglio? (ride) «Mio padre è maestro di tennis. Fino ai 10 anni ho tenuto la racchetta in mano, ma era stata una scelta mia. Ero bravino, rovescio migliore del dritto, bimane. Ricordo che avevo provato col calcio, ma gli altri volevano sempre la palla e a me, abituato a uno sport individuale, la cosa infastidiva. E poi la gente attorno che gridava: non fa per me, mi ero detto. A me non piace la confusione».
E invece?
«Invece, dopo una parentesi nello judo, a 10 anni mi torna la voglia. Mi presento al Cantiere Navale Fratelli Orlando, la squadretta del mio quartiere a Livorno, e il primo allenamento va benissimo. Mi mettono in difesa, ma quando prendo palla la porto verso la porta avversaria ogni volta un po’ di più, finché non faccio gol. Una, due, tre volte. A quel punto l’allenatore ferma tutto, mi guarda e fa: tu ti sposti in attacco. Ma la cosa più bella era successa prima».
Cioè?
«Mia madre è come me, odia il casino. Così, prima dell’allenamento, si avvicina al mister e, presentandomi, gli dice: “Signor Roberto, se a Leo piace, io glielo porto tutte le settimane. Però non voglio sentire confusione: di partite non si parla”. Quello la guarda con gli occhi di chi pensa: chissà che pacco mi sta rifilando. Poi, a fine allenamento, le va incontro e dice: “Signora, suo figlio le partite le farà. Tutte”».
Dopo cosa succede?
«A 17 anni sono nelle giovanili del Picchi, serie D, quindi già una cosa abbastanza seria. Ma io non riesco a pensare al calcio come al mio futuro. Penso invece all’università che da lì a un paio d’anni avrei iniziato – volevo diventare fisioterapista, poi mi sono spostato a Biologia, ma è durata poco. Ero abbastanza insofferente alle regole, certi compagni più grandi mi sfottevano... Insomma, andavo avanti senza troppa convinzione. Poi trovo un allenatore, Stefano Brondi, che crede in me e mi porta in prima squadra. Un po’ ero titolare, un po’ partivo dalla panchina. Avevo 18-19 anni».
La svolta quando arriva?
«A Castellammare di Stabia, 5 anni fa. Ma le cose non vanno bene, al contrario. Mi infortuno subito in ritiro, rientro a dicembre ma a quel punto le gerarchie sono stabilite: passo 6 mesi senza giocare e sento il calcio scivolarmi addosso».
Pensò di mollare?
«Quello no, ma mi convinco di non essere all’altezza. Penso: non ho mai studiato sul serio, non ho mai lavorato, il calcio lo sto perdendo, e se l’anno prossimo non mi chiama nessuno? Potevo perdermi, invece in quel momento da ragazzo che ero sono diventato uomo. E quando mi chiama il Lanciano, ancora in C, mi faccio trovare pronto: squadra promossa e io vicecapocannoniere con 16 gol».
A quel punto viene ripreso dal Sassuolo, proprietario del suo cartellino, in B. Poteva fare il salto di qualità già allora, invece?
«Invece parto alla grande, 5 gol in 3 partite, però mister Di Francesco mi alterna a Boakye, uno che in B aveva già segnato, e io scopro di non essere mentalmente pronto a sopportare la concorrenza. Non riuscivo a capire: sono il capocannoniere e vado in panchina?, mi chiedevo. È stato un brutto periodo, giravo a vuoto, entravo in campo col pensiero di essere stato fuori fino a quel momento e sbagliavo gol da un metro. Poi mi sbloccai ( fa un gesto con la mano e un suono con la bocca come a riprodurre qualcosa che scompare): tirai una linea e diventai un’altra persona. Basta preoccuparmi della concorrenza, basta cattivi pensieri. Giocavo 5 minuti? E in quei 5 minuti davo tutto. E tornai a far gol».
Lei è milanista, ma a Livorno andava in curva, storicamente di sinistra e antiberlusconiana. Se lo sa il presidente rossonero...
«Cantavo i cori, però non sono mai stato un capo ultrà» (ride).
Sua mamma adesso si è convinta che fare il calciatore era nel suo destino?
«Sì, ma allo stadio non viene. Sta davanti alla tv, fa i cori, balla, grida. E qualche volta applaude un mio compagno convinta che sia stato io a tirare».
E il maiale vietnamita da 100 chili che fine ha fatto? «È nel giardino di casa a Livorno. Lo prese l’ex di mio fratello quando era piccolo così, adesso è un bestione. Viziato. La mattina vuole il pane col latte, o i croccantini con gli avanzi della cena. Altrimenti è capace di rifiutare il cibo. Una volta qualcosa doveva essergli andato storto e ci devastò il giardino: non rimase neanche un ciuffo d’erba».
Pavoletti, quante volte le hanno detto che è un calciatore per sbaglio anche per aspetto e abitudini?
(ride) «Non ho tatuaggi: al giorno d’oggi mi sento più originale senza. Non ho orecchini: da ragazzino mi feci un piercing a un sopracciglio, è durato una settimana. Guido una Mini, però prima o poi la macchina per divertirmi la compro».
E si veste da clown per i bambini ricoverati in ospedale.
«Ho conosciuto i volontari della Fabbrica del Sorriso. Sono andato a Milano col mio compagno di squadra Perin. Solo uno dei bimbi ci ha riconosciuti, e forse è stato meglio così. Ci siamo messi in gioco, li abbiamo fatti ridere, abbiamo riso con loro. E siamo andati via sentendoci piccoli piccoli davanti a quei bimbi che stanno attaccati a dei tubi senza un lamento».