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 2015  dicembre 01 Martedì calendario

Cop21, a Parigi inizia la partita sul clima con un’Ue sempre meno competitiva e Obama che vuole lasciare un’eredità

«Siamo obbligati ad avere successo», spiega con amaro pragmatismo il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius mentre, a fianco del suo presidente, François Hollande, fa gli onori di casa alla Conferenza Onu sul Clima aperta ieri a Parigi. Dopo i buoni propositi della cerimonia inaugurale, 12 giorni di negoziati per arrivare a un accordo che per la prima volta sembra politicamente alla portata dei 190 Paesi rappresentati, ma la cui consistenza sarà tutta da verificare. 
Lungamente preparata soprattutto da Barack Obama che ha cucito una rete di accordi coi Paesi che inquinano di più, l’intesa non dovrebbe mancare perché, come dice il segretario dell’Onu Ban Ki-moon, la consapevolezza dei problemi non era mai stata tanto diffusa nel mondo quanto oggi, perché «quella attuale è la prima generazione che subisce le conseguenze del global warming e l’ultima che può fare qualcosa per arrestarlo» (Barack Obama) e perché, in un’era di conflitti e terrorismo planetario, i politici hanno bisogno di mostrare che riescono a governare con lungimiranza almeno sul clima. 
Anche se probabile, l’accordo non è tuttavia scontato, viste le resistenze dei Paesi poveri per i quali dei problemi ambientali sono responsabili solo le economie ricche del mondo industrializzato. Una contrapposizione che ha reso inefficace il Protocollo di Kyoto e ha fatto fallire le ultime conferenze ambientali come quella di Copenaghen del 2009. L’accordo negoziato da Obama con la Cina e quello, meno vincolante, con l’India sembravano sufficienti ad aggirare l’ostacolo, ma il primo ministro di New Delhi, Narendra Modi, è arrivato a Parigi deciso a dare battaglia. 
Del resto basta dare un’occhiata al tavolo dei leader che ieri hanno partecipato al pranzo inaugurale della conferenza per capire che, al di là di una generica volontà politica di accordo, arrivare a una soluzione efficace non sarà affatto facile. 
Il cinese Xi Jinping sta giocando un ruolo costruttivo e accetta vincoli perché il gigante asiatico è ormai il maggior inquinatore del mondo e la sua popolazione, con le città soffocate dallo smog, paga un prezzo altissimo per lo sviluppo. Pechino, comunque, ha preso impegni «a maglie larghe»: comincerà a frenare le emissioni solo dal 2030. E gli altri Paesi poveri o in via di sviluppo (al tavolo di Hollande sedevano anche i leader di Senegal, Sudafrica, Perù, Messico e Brasile) possono ora contare su un altro campione per alzare il prezzo dell’accordo con l’Occidente: Modi, appunto. 
Gli europei (con Hollande c’erano Angela Merkel, David Cameron e Matteo Renzi) sono pronti a fare la loro parte, ma dopo anni di politica «virtuosa» ma anche molto dispendiosa che ha reso l’energia assai cara in quasi tutto il Vecchio Continente, ora hanno bisogno che anche tutti gli altri protagonisti prendano impegni altrettanto significativi: reduce da anni difficilissimi, la Ue non si può permettere ulteriori perdite di competitività sul fronte dell’energia. L’Italia, forse la più esposta su questo fronte, chiede con Matteo Renzi accordi vincolanti, «non intese scritte sulla sabbia». 
Anche Putin, che pure sembra il meno interessato a una regolamentazione severa, visto che la Russia è un grande produttore di combustibili fossili, chiede un accordo legalmente vincolante. Nel farlo sembra avere in mente soprattutto le difficoltà di Barack Obama che si trova in una posizione curiosa: da un lato ha bisogno di essere il regista di un accordo vero da incorniciare come eredità politica che il presidente americano lascerà ai posteri. Dall’altro ha bisogno di un’intesa che non sia «troppo vera»: un po’ perché molti Paesi pronti a prendere impegni vogliono farlo su base volontaria, non accettando limiti alla loro sovranità. Ma soprattutto perché se da Parigi uscisse un nuovo protocollo – un trattato o comunque un accorso giuridicamente vincolante – Obama dovrebbe sottoporlo al voto del Congresso che lo boccerebbe.