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 2015  novembre 28 Sabato calendario

I Beatles spiegati da Bollani

Nel romanzo Natura morta con picchio di Tom Robbins c’è un personaggio che divide il genere umano in quattro grandi famiglie, pienamente rappresentate dai Beatles. C’è il rivoluzionario (John Lennon), il bravo ragazzo (Paul McCartney), la persona in cerca di spiritualità (George Harrison) e infine quello che passa di lì per caso, il tipo en passant (Ringo Starr).
Recentemente mi è capitato di assistere a un concerto di Paul ad Amsterdam in cui il “bravo ragazzo” dei Beatles ha riproposto gli stessi arrangiamenti di cinquant’anni fa. Ha chiesto a un gruppo di musicisti che era con lui in tour di eseguire le canzoni così come erano state incise. Il batterista era più bravo di Ringo Starr, ma non era la stessa cosa. Ringo infatti era venti volte più stimolante, dal momento che quello che suonava l’aveva inventato lui. Non erano performance “belle e pulite”, batteristicamente parlando, ma erano perfette in quel caso – anzi, come si diceva un tempo, atte alla bisogna. Ascoltate Here Comes the Sun. George Harrison aveva scritto da solo questo pezzo (che poi è finito nel disco Abbey Road) giocando con la chitarra a casa di Eric Clapton. E ne è uscito il tipico pezzo beatlesiano un po’ “storto” a tratti innaturale, e con una vaga sonorità indiana sullo sfondo (il periodo mistico-indiano di Harrison è stato un momento splendido della storia del pop).
Ringo aveva faticato un po’ ad adattarsi a quei suoni orientaleggianti – come ha dichiarato lui stesso –, ma proprio per questo le canzoni avevano qualcosa di speciale. L’impressione che si ricava dal concerto di Paul insieme ai suoi bravi turnisti è che, se avesse potuto, il nostro sarebbe salito sul palco con i Beatles veri, proprio gli originali.
Prendiamo per esempio l’assolo di chitarra di Something, che tra l’altro, suonato in questi palazzetti dello sport dove non si sente nulla, non sta molto in piedi. Non appena l’ho ascoltato mi sono chiesto: ma Paul non ha voglia di fare qualcosa di diverso?. Devo ammettere che la risposta è evidentemente no. Pop a tutti i costi. Dunque decide di rimanere uguale a se stesso per poter essere riconoscibile al primo colpo. Le cose più belle del concerto, anche perché inaspettate, sono state Here Today, una canzone stupenda dedicata a John Lennon, voce e chitarra, e un omaggio a George: la prima parte di Something per solo ukulele, magica. Mi sono chiesto: se John Lennon avesse suonato dal vivo nel 2015, ad Amsterdam, che scaletta avrebbe messo in piedi?
Mi piace immaginarlo slegato dai “soliti successi”. Anzi, forse Lennon non starebbe più cantando… sarebbe un attivista o un coltivatore biologico. Molti anni fa aveva dichiarato che a sessant’anni si vedeva come autore di libri per bambini. E George Harrison? Sarebbe in India, o più verosimilmente farebbe il produttore cinematografico. Tutto ciò mi ha spinto a pensare al peso, al grande peso di questo verbo che dura da cinquant’anni, il Verbo beatlesiano, l’eredità di uno dei gruppi più famosi al mondo. Un peso del genere lo può sopportare soltanto uno come Paul, dotato della spregiudicatezza di riproporre le trovate dei Beatles tali e quali a come le ricordiamo. Per lui è come se il gruppo non si fosse mai sciolto. Gli altri sono morti, a parte Ringo, che però si è eclissato. L’eredità è tutta in mano a Paul.
Riusciamo a immaginare un anziano John Lennon intervistato da David Letterman? Io sinceramente no. Apparentemente entrambi parlerebbero inglese, ma si tratterebbe di due mondi inconciliabili. La figura di John Lennon sarebbe inappropriata ai giorni nostri. L’eroe, quando non muore, rompe le scatole. Malcolm X, Gandhi, Che Guevara… immaginateli vivi… purtroppo nel mondo di oggi sarebbero la parodia di loro stessi. Nel loro percorso vediamo evidente un karma, un ruolo che si sono scelti o che il destino gli ha attribuito, come ha capito anche Tom Robbins. Bob Dylan era un mito ma adesso, che ha una certa età, la sua aura si è decisamente affievolita. (…).
Paul ha il karma di quello che sopravvive, John di quello che muore. E non è detto che sopravvivere sia più facile che morire. Sopravvivere è un karma importante. È un karma impegnativo. Bisogna aver coraggio per sceglierselo. Quello che conta dei Beatles, comunque, è la loro musica, e in questo ambito i quattro ragazzi di Liverpool, messi insieme, hanno fatto qualcosa di unico e irripetibile. Lo si sente bene ovunque, ma in particolare in Revolver, del 1966, e in Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, del 1967. In questi due dischi ci sono una qualità e una tavolozza di colori talmente varia che oggi non sarebbe più possibile produrli. Un discografico li bloccherebbe subito. Semplicemente non riuscirebbe ad avvertire, nella loro musica, una direzione precisa. Cosa state facendo? Che genere è? Come lo vendiamo? E questa canzone cosa c’entra con la precedente? Non capisco! Eleanor Rigby, I Want to Tell You e Tomorrow Never Knows, canzoni celebri di Revolver, sono pezzi diversissimi l’uno dall’altro. E in Sgt. Pepper’s c’è un oceano tra il brano che dà il titolo al disco, firmato da Paul e John – una specie di scherzo, di parodia, dove McCartney introduce i musicisti cantando, come si trattasse dello spettacolo in una taverna –, e Within You Without You, scritto da Harrison dopo un esercizio di meditazione, registrato da solo con violinisti e musicisti indiani, con il sitar e le tablas in primissimo piano.
I Beatles sono un miracolo di libertà e anche di comprensione reciproca, di fiducia. Il fatto straordinario è che, sebbene Within You Without You sia una canzone così atipica, e sebbene a tratti somigli a un pezzo pop di Bombay, nello stesso tempo risulta totalmente beatlesiana. Come si spiega un miracolo così? Probabilmente ha ragione ancora Tom Robbins. Forse il segreto è nei quattro tipi. Che poi mica devono essere separati e distinguibili per forza. Pensiamoci bene: è ancora meglio quando il rivoluzionario, il bravo ragazzo, lo spirituale e quello che passa di lì stanno tutti dentro la stessa persona. Questo sì che è un bel karma. Proviamoci.