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 2015  novembre 28 Sabato calendario

«Da giovane rubavo, bevevo, mi drogavo e sognavo di diventare un scrittore di successo». James Ellroy parla con David Peace (e con altri in «Ellroy Confidential» una raccolta di interviste per Mondadori)

  In “White Jazz” Pete Bondurant è un personaggio secondario, ma diventa uno dei protagonisti di “American Tabloid” e “Sei pezzi da mille”: è stata questa la scintilla che ha fatto nascere la Trilogia Underworld Usa? Il desiderio di vedere dove poteva portarla Pete? «È nato tutto dalla lettura di “Libra” di Don DeLillo. Quel libro era talmente perfetto che non avrei potuto scriverne un altro sull’assassinio di John
F. Kennedy. Ma quando capii che le prime avvisaglie dell’attentato si potevano rintracciare nel ’58, pensai che avrei potuto scrivere un libro, il primo di una trilogia, in cui l’omicidio era un evento determinante ma secondario. Inizialmente volevo come protagonista il detective privato Fred Otash, che in seguito è diventato un comprimario di altri tre o quattro libri, ma avrei dovuto pagarlo perché non mi fidavo di lui».
Ha scritto “American Tabloid” sapendo che sarebbe stato il primo di una trilogia?
«No, l’ho capito mentre scrivevo il finale. E ho capito anche che il secondo sarebbe stato il grande libro sugli anni Sessanta».
Si era già immaginato anche il terzo?
«Non nei dettagli, no. Perché la politica e gli sconvolgimenti sociali dell’America degli anni Sessanta sono noti – le proteste antibelliche, il movimento per i diritti civili, il razzismo del Sud, Howard Hughes che si accaparra Las Vegas... – e avevo già parecchio materiale prima di iniziare. Ma quando ti immergi nel 1972, come fa Il sangue è randagio, ti ritrovi in un territorio meno storicizzato».
Quando ha stabilito l’arco temporale di ogni romanzo?
«Avevo deciso di chiudere i primi due libri con gli assassinii di JFK nel 1963 e di Martin Luther King e Robert Kennedy nel 1968, e in seguito la morte di Hoover nel ’72 si rivelò come logica conclusione della trilogia».
Parliamo di episodi storici fondamentali e complessi. Qual è il suo metodo di ricerca?
«Assumo dei ricercatori che stilano per me una scaletta cronologica degli eventi, in modo da evitare anacronismi. E da lì estrapolo i fatti da romanzare. Che è quello che fa anche lei: si limita a estrapolare...».
Be’, io ricorro perlopiù alla biblioteca, ma posso passarci anche un anno prima di iniziare a scrivere. Per questo ammiro la sua abilità di farlo standosene a casa...
«A me piace stendermi al buio, Mr Peace. Semplicemente mi stendo al buio e... penso. Sono un buon pensatore e un uomo tenace. Passo così tanto tempo... lei ha una famiglia?».
Sì, ce l’ho.
«Io no. Non l’ho mai avuta. Sono uno di quelli che a Natale e Pasqua non ha dove andare, e al massimo qualcuno mi invita per pietà. Quindi passo un sacco di tempo da solo, a pensare. Vivo una vita interiore molto semplice, il che permette alle mie storie di costruirsi da sole, con calma, e presentarsi a me in una forma già comprensibile. Sono le voci e le situazioni a venire da me, non il contrario».
Lei alterna i punti di vista di capitolo in capitolo. Come procede? Scrive tutto ciò che riguarda un personaggio dall’inizio alla fine e poi mescola le carte, oppure scrive linearmente, cominciando ogni capitolo con un punto di vista diverso?
«Procedo linearmente. Parto da una bozza di 400 pagine. E poi vado in ordine, primo, secondo, terzo capitolo e così via, ogni volta un punto di vista diverso, alternati e in ordine: Holly, Crutchfield, Tedrow, Holly, Crutchfield, Tedrow...».
Quindi anche la bozza è divisa in capitoli?
«Parto dagli appunti. Ho pagine e pagine di appunti su ogni personaggio e sugli eventi storici. Ci vuole poco e le cose cominciano a collimare. Poi stendo una versione dattilografata dell’intera storia, e quindi trascrivo il tutto in una bozza più grande. E la bozza è scritta più o meno così: Capitolo 1: Pete Bondurant / Beverly Hills Hotel / Guardare Howard Hughes che si fa di eroina / Seguire le piste / Seguire le informazioni / Bum, bum, bum».
Ha scritto di un periodo che ha vissuto, gli anni dal 1968 al 1972. Quanto sono tornati utili i suoi ricordi personali?
«Non ho un gran senso del sociale. Ricordo quel periodo e gli eventi specifici. Ma non me ne fregava di niente. Ero un egocentrico. Tutto quello che mi interessava era bere, drogarmi e fare il pervertito con le donne, senza successo. E leggere. Non sono mai stato di sinistra. Non sono mai stato un contestatore. Rubavo, mi rintanavo nelle biblioteche, dormivo nei parchi. Ma leggevo e coltivavo l’idea di diventare un grande scrittore».
Perché scrive della Storia sot-
to forma di romanzo, piuttosto che di non-fiction?
«Perché voglio cambiarne alcune cose. Se di una storia non mi piace qualche elemento, o come va a finire, non voglio sentirmi obbligato ad attenermi ai fatti. E voglio raccontare le storie private. Se ripensa a ciò che io chiamo “l’incubo privato delle politiche pubbliche”, allora le mie invenzioni narrative si possono considerare attendibili. Mi basta immaginare la rete di malintenzionati e doppiogiochisti, che anche i politici più onesti conoscono bene».
Ha scritto il primo memoir, “I miei luoghi oscuri”, tra “American Tabloid” e “Sei pezzi da mille”. È stato molto difficile passare da un romanzo a un’autobiografia e poi di nuovo a un romanzo?
«No, è stato facile. GQ mi pagò bene per andare a visionare il dossier dell’omicidio di mia madre, e capii che potevo trasformarlo in un libro che sarebbe stato la sua biografia, la mia autobiografia e l’opportunità di indagare sulla sua morte. Non c’ho pensato due volte. Sapevo che sarei potuto tornare al romanzo quando volevo».
Cosa l’ha spinta a scrivere poi una seconda autobiografia, “Caccia alle donne”?
«Ho capito che quella tra me e mia madre non era una storia di omicidio, ma una storia d’amore. E chiedendomi quale fosse la mia ossessione più grande, mi sono risposto “le donne”».
Scrivere un’autobiografia di questo tipo è un’esperienza disturbante o catartica?
«Sa qual è il punto, Mr Peace? Sono semplicemente un esibizionista».
John Dos Passos...
«Mai letto».
Nel 1932 John Dos Passos scrisse che un romanziere dovrebbe aspirare a essere “l’architetto della Storia”. E io penso che nel suo libro migliore lei abbia raggiunto questo traguardo. Le piace essere considerato così, un architetto della Storia?
«Mi piace, sì».
Considera una benedizione o una maledizione l’aver vissuto nei periodi storici in cui ha vissuto?
«Una benedizione, decisamente una benedizione».