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 2015  novembre 28 Sabato calendario

Le nuove verità su Alma Shalabayeva. Tra «silenzi pagati» e «no comment»

La nuova “verità” sull’affaire Shalabayeva è in 15 cartelle dell’informazione di garanzia e avviso a comparire notificate dalla Procura di Perugia agli 11 indagati, a diverso titolo, per sequestro di persona e falso. Sette poliziotti, un giudice di pace, i funzionari dell’ambasciata kazaka Nurlan Khassen, Andrian Yelemessov e Yerzhan Yessirkepov. Ed è una verità che, ridotta all’osso, suona così. Fu un’impressionante catena di falsi e «condotte consapevolmente commissive e omissive», una sistematica dissimulazione della verità, a consentire che Alma Shalabayeva venisse illegittimamente espulsa dal nostro Paese insieme alla figlia di 6 anni, Alua Ablyazova. Di più. A quel frenetico maquillage della realtà che doveva necessariamente elidere il presupposto che avrebbe reso impossibile l’espulsione (la vera identità della donna, la sua condizione di madre e il suo status di moglie di un dissidente e rifugiato politico) tutti contribuirono nella piena consapevolezza dell’abuso che si stava consumando. Dirigenti, funzionari e agenti di Polizia (che di quell’identità erano al corrente prima ancora del suo fermo), nonché il giudice di Pace che a quello scempio giuridico diede avallo, Stefania Lavore. Che, si scopre ora, intercettata telefonicamente dal Ros dei carabinieri, si lascia andare a una confessione che, con lei, non solo travolge i protagonisti “in chiaro” di questa storia, ma apre uno squarcio anche sugli innominati dell’inchiesta. «Mi avrebbero schiacciato – confida il giudice a un interlocutore di cui, dall’informazione di garanzia, non è dato conoscere l’identità – ho fatto pippa… Non ho sputtanato nessuno… Hanno pagato il mio silenzio… I panni sporchi si lavano in famiglia».Di chi aveva paura la Lavore? Chi l’avrebbe schiacciata? Il ministro dell’Interno Angelino Alfano? Quello della Giustizia? Il capo della Polizia Alessandro Pansa? Gli uffici giudiziari di Roma? L’Eni, che – viene documentato ora dall’indagine – avrebbe messo a disposizione dei kazaki, attraverso una sua società, aereo e pilota per questa “extraordinary rendition”? O l’allora capo della Mobile (e oggi direttore dello Sco) Renato Cortese insieme all’allora capo dell’ufficio immigrazione (e oggi questore di Rimini) Maurizio Improta? E poi: come sarebbe e da chi sarebbe stato “pagato” il suo silenzio? Infine: a quale “famiglia” in cui lavare i panni sporchi si fa riferimento?Raggiunta al telefono, la Lavore farfuglia spaventata di ritenere che la magistratura debba fare il suo lavoro. Né si ha più fortuna con gli altri indagati. «No comment». «Serenità negli accertamenti in corso» (gli indagati cominceranno ad essere sentiti a Perugia nei prossimi giorni).Dunque, sono solo le carte a parlare. E non è un bel leggere. Perché, a quanto pare, sulla scena non c’è un solo protagonista che dica la verità. Qualcuno alza anche le mani. Su Bolat Sereliyev, presente al momento del fermo della Shalabayeva nella villa di casal Palocco e picchiato due volte. Nella casa, quando il commissario Francesco Stampacchia lo «colpisce al volto con uno zaino su rotelle». E quindi in questura («con pugni alla schiena»), quando si scopre che il disgraziato ha scritto in russo sul verbale che gli è stato fatto siglare, “Non capisco cosa sto firmando”.L’inchiesta di Perugia afferra tre nuove circostanze ignote alle cronache e alla prima indagine condotta dalla Procura di Roma. La prima. «I dirigenti Cortese e Improta, il capo della sezione della Mobile Armeni e il commissario Stampacchia – scrivono il procuratore Luigi De Ficchy, l’aggiunto Antonella Duchini e il sostituto Massimo Casucci – omisero di attestare e comunicare che la donna fermata a Casal Palocco il 29 maggio 2013 si identificava in Alma Shalabayeva, moglie del dissidente ricercato Ablyazov Muktar, pur conoscendo la squadra Mobile le reali generalità della donna e disponendo della fotografia della medesima fin dal primo pomeriggio del 28 maggio, quando ebbe a ricevere la “nota verbale” kazaka con 21 allegati». Di più: «Omisero di riferire che la donna era madre di minore con lei convivente e che aveva ampie disponibilità patrimoniali, pur avendo sequestrato 50mila euro in contanti presso la sua abitazione».La prova è appunto in quella “nota verbale” con cui Astana detta la linea al governo di Roma, al suo ministro dell’Interno (che, per 48 ore, tollera che funzionari kazaki bivacchino nella sua anticamera neanche fosse casa loro e ottengano che la polizia italiana si metta a servizio), all’intero Dipartimento di pubblica sicurezza. Si legge: «Informiamo che Mukhtar Ablyazov potrebbe essere accompagnato dalla moglie Alma Shalabayeva. Confermiamo che la donna è una cittadina del Kazakistan ed è in possesso di un passaporto falso di un altro Paese (presumibilmente la Repubblica Centrafricana)».Si indica quindi alle autorità italiane dove trovare la donna (la villa di via di Casal Palocco 3) e si conclude: «In caso di conferma delle false generalità di Alma Shalabayeva, chiediamo alle rispettive autorità di deportarla in Kazakistan».La seconda novità è nella scoperta del modo con cui vennero preparati in fretta e furia i documenti di identità che dovevano accompagnare l’espulsione della Shalabayeva e di sua figlia.Scrivono i pm: «La mattina del 30 maggio, prima dell’udienza di convalida del trattenimento presso il Cie della donna, Improta consegnò a Nurlan Khassen, consigliere dell’ambasciata del Kazakistan, le foto tratte dal passaporto della donna e della figlia perché venissero ritoccate e utilizzate per formare i “falsi documenti di ritorno”». Nessuno obietta, tutti fingono di non vedere. A cominciare dalla Lavore, che nella sua convalida di fermo, prima “dimentica” di annotare tutto ciò che avrebbe reso impossibile l’espulsione (la reale identità della donna, «che le era nota», «la sua richiesta di asilo», la sua «condizione di madre di minore», la bontà del passaporto). E quindi afferma «falsamente il contrario».Del resto, in questa storia, non dice la verità neanche l’Eni. Ed è questa la terza “scoperta” dell’inchiesta di Perugia e del Ros. Ascoltato dai pm, il pilota dell’aereo messo a disposizione delle autorità kazake per la “deportazione” della Shalabayeva avrebbe infatti spiegato di aver lavorato al tempo per una società Eni che, normalmente, trasferiva tecnici e dirigenti della società impegnati in Kazakistan. E avrebbe aggiunto della sua sorpresa e sconcerto per le grida di quella donna che, ancora al momento di salire sulla scaletta dell’aereo, avrebbe gridato la sua condizione di moglie di un dissidente e la sua richiesta di asilo politico.Le carte dell’inchiesta documentano che le sarebbe stato risposto: «Ormai è stato tutto deciso ad alto livello». «Alto livello». Quale? Quello di Cortese e Improta?