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 2015  novembre 27 Venerdì calendario

Terry Gilliam racconta la sua vita ma non cosa gli passa per la testa: «Mi piace tenere il mistero su come funziona il mio cervello»

Solo a metà della sua autobiografia Gilliamesque, appena tradotta in Italia da Sur, Terry Gilliam pone quella che a suo dire è «la domanda fondamentale a cui non ho mai dato una risposta». E cioè: «Sto guidando io, oppure ho solo rimediato un passaggio?». Per un’artista che ha sempre usato le armi del collage, della parodia, dello sberleffo infantile, l’interrogativo ha il tono di un qualche tipo di bilancio serio. Poi ascolti la risatina contagiosa («ih, ih, ih») che punteggia il racconto delle sue mille picaresche avventure, quasi tutte incredibili a ripensarle oggi, e la risposta viene da sé.
Da uno psicanalista non andrà mai: «Mi piace tenere il mistero su come funziona la mia testa» scherza, «Woody Allen ci ha costruito sopra una carriera, io non voglio saperlo. Non analizzo mai quel che faccio, soltanto nelle interviste sono costretto a trovare delle risposte intelligenti». C’è una foto, pubblicata nel ricco corredo di illustrazioni e immagini del libro – in origine avrebbe dovuto essere una lussuosa raccolta delle opere grafiche di Gilliam – che lo mostra ventenne durante il primo viaggio in Europa in autostop. Anni 60, un pioniere hippy. Al posto della mano ha un enorme pollice alzato, ritagliato nel cartone. Sembrebbe uno dei suoi collage, ma non lo è. «La foto è stata scattata a Lindos, sull’isola di Rodi, e quel grande pollice era vero!» ricorda oggi. «Il problema è che i camionisti pensavano fosse uno scherzo e spesso non si fermavano».
C’è un altro particolare curioso in quella foto: una vecchia borsetta blu dell’Alitalia usata come valigia. «L’avevo trovata lungo la strada, chissà dove. Ero stato in Marocco, in Spagna, in Francia, in Italia e poi in Grecia, ma il bello è che non ho preso nessun aereo: il viaggio l’avevo fatto in nave». Per caso oppure no, l’Italia ha un suo posto nella vita di Terry Gilliam, che da qualche tempo si ritira quando può in un casale in Umbria. Da vecchio appassionato di polpettoni medievali e film peplum, quel paesaggio «pronto per girarci un film» non finisce di stupirlo. E nell’autobiografia parla dei suoi esordi come autore di fotoromanzi satirici, in una rivistina scolastica che si chiamava Fang!, ricorda che «avevamo preso l’idea da un meraviglioso film di Fellini con Alberto Sordi, Lo sceicco bianco».
«Torno adesso da via Margutta, dove abitava Federico, ci sono stato in pellegrinaggio» dice adesso seduto nella hall di un hotel a due passi da piazza del Popolo. «Sai, io sono nato in provincia come lui, e per noi provinciali la grande città è sempre affascinante». Espertissimo di imprese impossibili, geniali flopponi e lotte epiche con Hollywood, Gilliam scrive: «In generale, per me il processo di fare un film è quasi sempre meglio del film stesso».
E questo è ancora totalmente felliniano. «Per Münchausen ho lavorato con Dante Ferretti a Cinecittà, nel suo territorio» racconta, «il primo giorno è venuto lui di persona a darmi la benedizione. Il giorno dopo stava girando Intervista, mi pare, e la scena si svolgeva su albero con sopra Mastroianni, proprio fuori dalla mia porta. Sono rimasto ore chiuso in ufficio in attesa che finisse. L’ultimo giorno di Münchausen abbiamo cenato insieme, con Ferretti, Giulietta, Federico. Dopo otto mesi finivo un film molto difficile e faticoso, ma quella passeggiata nelle vie di Roma la ricorderò per sempre».
Non era esattamente un provinciale, Gilliam, quando fuggi dall’America verso l’Europa «su un transatlantico scalcagnato che chiedeva cento dollari per portarti da New York a Southampton in undici giorni». Ventisette anni, laureato all’università, illustratore per Help! (una costola della mitica rivista satirica Mad) e pubblicitario a Madison Avenue. Da cineasta sperimentale aveva ripreso con una cinepresa portatile la folla di ragazzini fuori dell’albergo dove alloggiavano i Beatles nel ’65. Aveva vissuto in una casa-palafitta a Laurel Canyon, L.A., vicino di casa di Neil Young («ci assomigliavamo tantissimo»), e al festival rock di Monterey c’era stato come fotografo accreditato.
Certo, aveva pure lavorato alle poste, e alla catena di montaggio della Chevrolet (da cui «le angoscianti catene che saltano fuori nelle animazioni di Monty Python»), con la tenacia del «contadino del Minnesota» dov’era nato. Era stato insegnante di teatro per i figli problematicissimi dei grandi attori di Hollywood: il tentativo di mettere in scena Alice nel paese delle meraviglie, ricorda, fu il primo grande fallimento della sua carriera. E, comunista suo malgrado nel pieno della caccia alle streghe – ricorda – leggeva Dostojewski per prepararsi all’arrivo dei comunisti veri e tanto attesi, che però non arrivavano mai. «Al liceo avevo come professore un certo Mr. Novak» riprende, «viene il preside e ci dice: “Mr. Novak è stato chiamato a un interrogatorio della commissione McCarthy, ma sappiate che lui è un uomo straordinario, un ottimo professore. Una cosa orribile. Mi ricordo bene anche quando arrivarono un sacco di ungheresi nella nostra chiesa a Los Angeles, dopo l’invasione del ’56».
Anche per questo può Gilliam aggiungere tranquillamente di non aver avuto bisogno di leggere George Orwell per girare Brazil. «L’ho letto dopo. Non sapevo che i personaggi alla fine della storia si ritrovano in una valle bellissima, come in Brazil. Sarà che se entri in un certo ordine di idee, alla fine ti ritrovi sempre in una valle bellissima». A una scena di Easy Rider, invece, assomiglia l’aneddoto di quando subì un tentativo di linciaggio da parte degli abitanti di un paesino del Wyoming per via dei capelli lunghi. «Chi ti credi di essere Gesù Cristo?», gli urlò una vecchietta. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu la proibizione di entrare a Disneyland, per lo stesso motivo. Oggi ricorda: «Le guardie all’ingresso dissero che dovevano proteggermi dall’ira delle persone normali. Proteggere me? Non era un regno meraviglioso? A quei tempi l’America era veramente confusa, e io ero troppo arrabbiato». Intere generazioni di comici hanno mandato a memoria gli sketch dei Monty Python, che restano purissima quintessenza della controcultura anni 60. Da Cochi e Renato a Corrado Guzzanti ai Soliti Idioti, per restare da noi. Ci si scambiavano gelosamente i vhs, poi i dvd. Adesso è tutto su YouTube.
«Ero a Pescara l’altro giorno, al premio Flaiano» dice ora Gilliam, «e c’erano ragazzini di tredici anni che sapevano tutto dei Python. Incredibile». Qualche mese fa, durante la crisi greca, su Facebook aveva ripreso a girare l’esilarante sketch della partita di calcio tra filosofi greci e filosofi tedeschi. «Io facevo la parte di un filosofo tedesco, mi pare» ricorda divertito. Si prendeva il lusso di apparire in qualche scenetta soltanto dopo aver finito il massacrante lavoro sulle animazioni che ricucivano lo show del Flying Circus.
«La cosa strana» scrive oggi «è che non potevamo correre il rischio di demolire il sistema esistente, perché altrimenti non avremmo avuto più nessuno da prendere per il culo». Inevitabile chiedergli alla fine se non pensa che le storie meravigliose che racconta nella sua autobiografia siano davvero di un altro mondo, sepolto per sempre. «Già oggi sembra tutto molto più libero di allora, ma non è così» risponde lui. «La gente è spaventata dalle stesse cose. Non è davvero libera. Ricordo bene la paura del terrorismo negli anni 70, gli aerei dirottati, le bombe, quando tutti avevano paura di tutto. Non è cambiato tanto, e i politici adorano la paura perché è ciò che li rende potenti».