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 2015  novembre 26 Giovedì calendario

Il Papa in Africa dice di temere solo le zanzare. Ma il pericolo attentati è reale

L’«attentato delle zanzare» evocato da papa Francesco è una battuta tesa a sdrammatizzare i timori di un vero attacco terroristico durante la sua visita in Africa. Dire di temere più gli insetti che l’eversione islamica è molto in stile Jorge Mario Bergoglio. È la sfida di un Pontefice che vuole sperare nella forza del dialogo, anche con parole che possono essere male interpretate. Il pericolo di un’altra strage dell’Isis esiste, e riguarda anche il Vaticano. Fino a qualche mese fa, i collaboratori lo apostrofavano scherzosamente: «Santo Padre, ancora non l’hanno ammazzata oggi?». Ormai, però, non c’è da scherzare. Quando qualcuno riferisce alla diplomazia statunitense che Oltretevere sono rimasti sorpresi dalla circolare con la quale l’Fbi consiglia ai turisti americani a Roma di stare alla larga dai luoghi religiosi, la risposta è laconica ma ferma. «Quell’allarme» si ribadisce, «va preso molto sul serio».
Gli stessi servizi di sicurezza italiani cominciano ad ammettere che la prospettiva di un attentato nel nostro Paese, purtroppo, è «un problema di quando, dove e come, non di “se” ci sarà». Non esistono tracce concrete, vistose. È stato notato però da tempo una sorta di ribollìo informatico sui siti del fondamentalismo islamico contiguo a Isis e Al Qaeda. Nella «rete profonda», come viene definita, i segnali di un’offensiva anche contro l’Italia sono diventati martellanti, quasi ossessivi dopo il 13 novembre: il giorno degli attentati a Parigi. Un anno fa, sulla testata di Dabiq, la rivista online dell’Isis,che prende il nome dal villaggio siriano dove nel 1516 gli Ottomani sconfissero i Mammalucchi, campeggiava l’immagine di piazza San Pietro sovrastata dalla bandiera nera dell’organizzazione.
Allora, quel segnale fu interpretato come un messaggio di propaganda all’interno dell’arcipelago dell’eversione sunnita. Adesso, la preoccupazione è che dalla propaganda si stia passando ad altro. Il fatto che la polizia abbia costellato di metal detector l’ingresso al colonnato del Bernini in piazza San Pietro rappresenta una misura preventiva. Ma si ammette che non può essere di per sé un antidoto totale. Di fronte a terroristi che si suicidano, non prevedono vie di fuga, quelle barriere servono ad evitare che entrino esplosivi tra la folla delle udienze. Chiunque, però, potrebbe insinuarsi nelle file di chi aspetta di essere controllato, e farsi saltare in aria.
D’altronde, il primo comandamento della guerra asimmetrica è di spargere il panico tra la popolazione inerme, e non tra soldati o agenti in uniforme. Il terrorismo sa quanto questo destabilizza l’opinione pubblica, soprattutto occidentale. E sullo sfondo rimane il problema di un Pontefice allergico a qualunque misura di sicurezza; e deciso ad andare anche nei luoghi più pericolosi. Si ricorda ancora quando nell’agosto del 2014, di ritorno dal suo viaggio in Corea del Sud, Francesco voleva fare tappa in Kurdistan, nel Nord della Siria. Fu fermato elencandogli i pericoli. Stavolta, «nonostante gli sia stato detto in tutti i modi» di non andare in Africa, non c’è stato nulla da fare.
I sopralluoghi compiuti nelle scorse settimane dai vertici della Gendarmeria vaticana tra Repubblica centrafricana, Kenya e Uganda, sono serviti a circoscrivere i pericoli. Tuttavia, il Papa girerà tra la folla sulla sua auto bianca scoperta e senza giubbotto antiproiettile. E domenica 29 novembre aprirà la Porta santa e il «Giubileo della misericordia» nella cattedrale di Bangui, circondata da un enorme campo profughi. Ma il ritorno a Roma preoccupa almeno altrettanto. I mesi del Giubileo non vedranno probabilmente l’affluenza di milioni di pellegrini che era stata prevista. La paura ha diradato, almeno per ora, anche il numero dei fedeli in piazza. Ricorre sempre più spesso, però, l’idea di invertire il paradigma di un Giubileo concentrato su Roma: fare in modo che la gente si sparga nelle città italiane dove pure si celebra l’Anno Santo; e opti per la capitale solo in seconda battuta.
Sarebbe la maniera più semplice per limitare una militarizzazione lunga undici mesi. Tra l’altro, sta facendo capolino all’interno della stessa Chiesa cattolica il timore che, se si verificano attentati, qualcuno possa strumentalmente chiamare in causa il Papa; mettere all’indice il suo rifiuto di blindare il Vaticano e di blindarsi; e recriminare sul modo improvviso col quale nell’aprile scorso Francesco annunciò l’Anno giubilare «di gioia, di serenità e di pace»: senza consultarsi con nessuno, nemmeno con le autorità italiane. L’organizzazione a dir poco carente, dovuta in parte anche alla crisi politica in Campidoglio, potrebbe diventare un argomento contro Bergoglio da parte degli avversari.
Misericordia e sicurezza sono due principi che nell’ottica papale non si contraddicono. E il dialogo rimane un assioma naturale nella pedagogia cattolica. «L’esperienza dimostra che la violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione», ha affermato ieri il Papa arrivando in Kenya, con parole che hanno suscitato qualche clamore. Non sarà facile accreditare verità ireniche e controverse in una realtà traumatizzata e spaventata. L’Italia, l’Europa e l’Occidente sono esposte a un’aggressione contro la quale il verbo del Pontefice latinoamericano rischia di essere, se non respinto, frainteso.