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 2015  novembre 23 Lunedì calendario

Il trucco è made in Italy. Il sessanta per cento della bellezza mondiale viene dal triangolo Milano-Bergamo-Cremona. La cosmesi dà lavoro a 200mila persone

Dalla Corea agli Stati Uniti, poche cose fanno felice una donna come il mascara giusto. Quello facile da applicare, che valorizza ogni tipo di ciglia e allo stesso tempo le rinforza. Dietro questo piccolo piacere quotidiano c’è un dato inaspettato: in sei casi su dieci quel mascara è prodotto in Italia. È un’altra Grande bellezza, fatta di ombretti prisma shine, rossetti lunga durata, smalti bifasici. Rigorosamente made in Italy. Il 60 per cento del make-up distribuito nel mondo è fabbricato nel nostro Paese. Quasi certamente nel «triangolo magico» tra Milano, Bergamo e Cremona, dove si concentrano oltre 500 aziende del settore. L’insostenibile leggerezza dei trucchi è una cosa seria, fattura miliardi di euro. È in continua crescita ed è cresciuta anche negli anni peggiori della crisi. I dati di Cosmetica Italia, l’associazione delle imprese cosmetiche, hanno tutti il segno «più». «Nonostante non sia conosciuto al grande pubblico come la moda e il food – spiega Fabio Rossello, presidente di Cosmetica Italia -, il nostro settore è trainante per l’economia italiana». La cosmetica (con un giro d’affari di circa 20 miliardi l’anno) impiega 35mila persone, che salgono a 200mila con l’indotto. E l’occupazione è prevista in aumento. Il segreto del successo non sono solo il fascino e la creatività del lifestyle italiano. Sta in quelli che Rossello chiama «i numeri doppi». Eccoli: «Le aziende cosmetiche investono in ricerca e sviluppo il 7 per cento del fatturato, contro una media dell’industria nazionale del 3 per cento. Le donne impiegate sono il 54 per cento, mentre la media del manifatturiero è ferma al 28 per cento. E anche i laureati sono quasi il doppio di quelli occupati negli altri ambiti, l’11 per cento rispetto al 6 per cento».
IL MEGLIO DIETRO LE QUINTE
Il presidente di Cosmetica Italia sfata anche il luogo comune del cosmetico come bene frivolo. «Parliamo di prodotti per il make-up, ma anche per la cura dei capelli, della pelle e per l’igiene personale. Consumi spesso irrinunciabili. Avere cura del proprio corpo non è solo un vezzo, riguarda la sfera emotiva e il benessere di ognuno e ha un importante ruolo sociale». Così l’associazione è entrata negli ospedali, a sostegno de La forza e il sorriso onlus. Che organizza laboratori di bellezza gratuiti per le donne in trattamento oncologico nei reparti di tutta Italia. Il progetto fa parte di un network mondiale che si chiama «Look good, feel better».Gli esperti dell’apparire lavorano dietro le quinte. E non è un caso. Le blasonate griffe francesi, americane, giapponesi preferiscono non far sapere che i loro prodotti sono fatti in Italia. Ma tutte le più grandi affidano la fabbricazione di creme e profumi alle aziende di casa nostra. Che non solo impastano texture e miscelano fragranze, offrono ai committenti il pacchetto completo. Dallo studio dei trend, all’invenzione di nuovi prodotti, al packaging, fino alla campagna di comunicazione. E così dai laboratori della Brianza o della Bergamasca escono must have che conquistano il mondo: il primer, una base per il trucco levigante, le alphabet cream, come le «BB» e le «DD» (che uniscono idratazione, colore, protezione, correzione delle imperfezioni), rossetti «effetto nudo», rimmel anti grumi.
L’INDICE DEL ROSSETTO
Dario Ferrari, 72 anni, è il maestro dell’italian beauty. Ha fondato Intercos 42 anni fa e ne ha fatto la principale multinazionale del settore. Dal quartier generale di Agrate Brianza risponde con l’entusiasmo di un giovane capitano d’azienda. «È naturale – dice – altrimenti me ne andrei in pensione. L’età ce l’ho, anche se con la nostra crema antirughe sono ringiovanito di dieci anni...». Intercos prevede di chiudere il 2015 con un fatturato di 440 milioni, «dal 2009 cresciamo del 12-13 per cento annuo», continua Ferrari. Ha 4mila dipendenti e vende all’estero il 90 per cento dei propri prodotti. È nata dal nucleo di una piccola impresa con dieci dipendenti che faceva make-up. «Decisi di non creare un marchio – racconta il patron – ma di produrre per altri. Questo lavoro mi piace, se sei leader i brand hanno bisogno di te, della tua creatività». Oggi l’azienda ha 13 sedi internazionali, tra Europa, Asia, Stati Uniti. «Ben 621 dei nostri addetti – aggiunge Ferrari – sono dedicati a ricerca e innovazione, ogni anno investiamo in questo ambito il 35 per cento dei ricavati». Come si soddisfano clienti tra loro tanto diverse per pelle, cultura, modo di truccarsi? «Facciamo trend scouting in tutto il mondo – spiega l’imprenditore -. Cerchiamo di capire le esigenze dei consumatori locali in ogni continente e di anticipare il mercato. Nel nostro showroom si vedono già i prodotti che spopoleranno fra due anni».Si chiama Lipstick index, «indice del rossetto». È un indicatore economico inventato da Leonard Lauder e dice che con la crisi le donne comprano più rossetti proprio perché devono rinunciare ad articoli più costosi, come scarpe o borse. La teoria è dimostrata dai dati, anche in Italia. Dal 2009 a oggi, gli anni neri in cui anche i settori affini hanno perso miliardi, i consumi interni di cosmetici hanno avuto una crescita media annua dello 0,7 per cento.
I BIG DEL MERCATO
Insieme ai produttori per conto terzi, sorridono i marchi italiani del beauty. Come Pupa, che ha truccato generazioni di ragazze e che oggi esporta in 70 Paesi il 45 per cento dei suoi prodotti, in particolare in Francia, Russia, Olanda, e ha un fatturato di circa 100 milioni (dato 2014). Le storiche trousse rosso fuoco rappresentano ormai solo una parte delle creazioni. «Accanto al make-up ci occupiamo di cosmetica a 360 gradi – spiega Lavinia Fazio, Pr e Digital strategist dell’azienda fondata nel 1974 da Angelo Gatti nella provincia milanese -. Dalla fascia di mercato low cost, amata dalle ragazzine, ci siamo spostati sulle 25-35enni. Ma è probabile che un’adolescente che ha ricevuto a Natale uno dei nostri cofanetti, poi continui a comprare maquillage Pupa. Perché creme e rossetti italiani hanno tanto successo? Fanno tendenza, Pupa lancia quattro collezioni di make-up l’anno ispirate alle passerelle. E abbiamo una cura maniacale per la qualità». Poi c’è il caso Kiko Milano. Nata nel 1997, è arrivata in cima alla top ten dei brand italiani di beauty. Secondo un recente studio di Pambianco su 23 aziende campione, nel 2014 Kiko ha conquistato il primato con 432 milioni di fatturato (davanti a Manetti & Roberts, 284 milioni, ed Euroitalia, 247 milioni). Dietro questo successo c’è la famiglia bergamasca dei Percassi. Il patron, Antonio, ex difensore dell’Atalanta di cui oggi è presidente, da quando è diventato imprenditore sembra non sbagliare una mossa. Nel 2001 ha portato in Italia Zara, quest’anno i trucchi di Victoria’s Secret e secondo indiscrezioni si preparerebbe a far sbarcare anche Starbucks.
BELLEZZA DI MEZZO
«Kiko è stata fondata da Stefano Percassi (uno dei sei figli di Antonio, ndr), che oggi è amministratore delegato – spiegano dalla società -. L’intuizione è stata che ci fosse un gap di mercato da colmare tra i cosmetici da supermercato e quelli di alta gamma». La specialità dei Percassi è la vendita diretta, formula che ha lanciato anche Kiko. Basta entrare in uno dei 700 store con l’insegna colorata presenti in 11 Paesi, per capire quanto siano lontani dal vecchio format del negozio di profumeria e sperimentare la «fast fashion» applicata ai cosmetici. Musica soft, collezioni sempre nuove, prezzi accessibili: ombretti da 1 euro e 90, rossetti da 2,90, fondotinta fluidi da 3,90. E ragazzine che trovano un trucco diverso per ogni weekend, lo testano in negozio, si fanno aiutare dalle commesse a inventarsi un look. Non meno chic e compiaciute delle loro mamme in borsetta Chanel.