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 2015  novembre 02 Lunedì calendario

L’altro Steve Jobs raccontato da Greg Brandeau, il manager che ha lavorato con lui per ventitré anni

Ogni azienda può innovare se riesce a far leva sul «genio collettivo» di chi ci lavora. E un leader efficace è quello che sa scatenare quel genio. Greg Brandeau l’ha imparato lavorando con Steve Jobs alla Next computer (dal 1993 al ’96) e poi alla Pixar (1996-2006). Una lezione che ha raccontato nel libro Collective Genius: The Art and Practice of Leading Innovation e su cui è incentrata la sua conferenza al World business forum di Milano, in programma il 3 e 4 novembre.
Laurea e master in Ingegneria elettrica al Mit, dopo il passaggio di Pixar alla Disney Brandeau ci è rimasto fino al 2013 come senior vice president, poi è diventato presidente e responsabile operativo di Maker media, l’editore di Make magazine e promotore delle Maker faire.
Come può descrivere il genio di Steve Jobs?
«Attenzione: il mio libro non è una guida a come diventare il nuovo Steve Jobs. È impossibile. Sarebbe come se io volessi diventare Michael Jordan: non ho le doti atletiche del campione di pallacanestro. Allo stesso modo, non abbiamo le qualità geniali di Jobs, che ha saputo creare tre aziende multimiliardarie: la prima Apple, Pixar e la seconda Apple».
Capito. Ma Jobs era davvero un genio, o no?
«Certo. Era geniale la sua visione della semplicità nel design della tecnologia. Ma soprattutto sapeva circondarsi dei talenti migliori».
Ci racconta come è riuscito a farsi assumere da lui?
«Ho avuto con lui un colloquio di dieci minuti che mi ha cambiato la vita. Un cacciatore di teste mi aveva detto che Jobs cercava qualcuno esperto di un certo tipo di gestione finanziaria aziendale e che aveva già respinto 20 candidati. Così per curiosità sono andato ai colloqui di selezione: quattro giorni di interviste con un sacco di gente eccezionale e alla fine l’incontro con lui. Mi disegna una sua idea di sistema finanziario e mi chiede se posso gestirlo. Rispondo di no e spiego che secondo me non funziona. “Ok, sei assunto”, mi dice. Voleva sapere se avevo il coraggio di dire la verità e sfidare il potere».
Ma Jobs è famoso anche per le sue sfuriate con i collaboratori: uno stile che non sembra facilitare la critica…
«Anche con me qualche volta ha gridato. Penso che lo facesse quando era frustrato per non riuscire a piegare le leggi della fisica. È vero, con lui dovevi essere forte e tener ferme le tue posizioni, se eri convinto di avere ragione. E proteggere i tuoi dipendenti dai suoi scatti d’ira. Ma c’è un altro Jobs che pochi conoscono».
Diverso da quello che urla nel nuovo film?
«È il Jobs che ha esaudito il desiderio di mia mamma di incontrarlo come regalo di Natale, nel ’94. Lei era una fan di Apple fin dal primo Macintosh e mi aveva scritto una email toccante chiedendo di incontrare il mio boss. L’ho girata a Jobs, che incredibilmente ha accettato di parlarle, in corridoio, andando da una riunione all’altra: per cinque minuti non ha fatto altro che tessere le mie lodi. Mia mamma era al settimo cielo».
Lo stile dell’attuale capo di Apple, Tim Cook, è molto più calmo e collegiale. Che cosa funziona meglio per stimolare l’innovazione?
«Dall’esperienza fatta con Jobs e dalle interviste realizzate per il libro, ho ricavato che l’innovazione è legata a tre componenti: la abrasione creativa, l’agilità creativa e la risoluzione creativa. La prima significa saper discutere vigorosamente con gli altri, in un vero dibattito da cui possono emergere le idee migliori. L’agilità creativa è la capacità di sperimentare nuove idee e imparare velocemente dagli errori per andare avanti».
E la risoluzione creativa?
«È saper prendere le decisioni non sulla base del minimo comune denominatore, ma facendo la miglior sintesi delle proposte. Il problema è che in tutte queste fasi, dalla discussione alle decisioni, si scatenano un sacco di emozioni fra le persone coinvolte».
Che cosa le tiene insieme?
«Un leader che costruisce una comunità dove le persone sono unite da un obbiettivo comune, valori e regole d’ingaggio precise. Per esempio alla Pixar sapevamo che la nostra missione era realizzare sullo schermo la visione del regista di un film e che per questo era necessario il lavoro sia degli artisti sia dei tecnici dei computer; condividevamo l’ambizione di essere bravissimi; e il chief technology officer Ed Catmull era bravo a mantenere un clima di fiducia e rispetto reciproci. Il risultato: tutti i film prodotti da Pixar sono stati grandi successi».
Per riassumere?
«Vent’anni fa un bravo leader pensava a massimizzare i profitti degli azionisti. Oggi deve reclutare i talenti più brillanti e tirar fuori il meglio da loro».