Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 02 Lunedì calendario

Etica fiscale. Le tasse come «indispensabile strumento di attuazione del principio di uguaglianza»

La grave crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo, associata ai sempre più numerosi fenomeni corruttivi, ha indubbiamente spiazzato i fautori dello Stato minimo e ha imposto la necessità di uno Stato più redistributore e più erogatore di servizi sociali ispirato nella sua azione ai grandi valori etici e di moralità collettiva. Non so se ciò sia stato frutto di una scelta consapevole tra interventismo e liberismo, tra Stato e mercato, e non invece del fatto che nell’attuale contingenza le politiche interventiste keynesiane possono dare più immediati risultati e, perciò, sono in concreto preferibili agli entusiastici piani di deregolamentazione e privatizzazione sottoscritti nel 2009 anche dai governi europei nella cosiddetta Agenda di Lisbona.
Qualunque sia la causa del recupero dell’azione statale, sta di fatto che, se ciò non avvenisse, il continuo aumento delle distanze sociali (per livello di reddito, di consumo e di patrimonializzazione) finirebbe col generare l’opposto dello stato di diritto e dello stato sociale, e cioè gerarchia e autoritarismo e, soprattutto, sospetti: il sospetto che altri più rapaci e più spietati sfruttino – com’è avvenuto spesso in Italia – con maggiore efficacia le zone d’ombra delle regole per trarne vantaggi personali; il sospetto che i più ricchi finiscano per ottenere vantaggi più grandi senza contribuire alla crescita.
Non possiamo, perciò, non sentire istintivamente, in questi momenti di crisi, l’importanza dell’intervento pubblico diretto ad arrestare la spirale delle disuguaglianze e l’involuzione dello stato sociale. Questo passaggio è cruciale: se ci sono disuguaglianze endemiche, la loro riduzione deve essere al primo posto tra gli obiettivi etici di politica economico-sociale che lo Stato deve perseguire nel rispetto dei diritti fondamentali dei suoi cittadini. Come dice Tony Judt, la disuguaglianza è la vera patologia dell’epoca, è una grave minaccia al buon funzionamento di ogni democrazia, è la perdita del senso di fratellanza e della coesione sociale.
È in questo contesto che il tributo si rivela, al pari e più della spesa, un indispensabile strumento di attuazione del principio di uguaglianza. Ordinate politiche distributive che premino i più svantaggiati e gravino gli avvantaggiati limitano certamente le risorse di alcuni a beneficio di altri. Se, però, esse hanno come effetto di medio e lungo periodo di proteggere i più vulnerabili, migliorare la salute del Paese, ridurre le tensioni sociali, incrementare e livellare l’accesso di tutti a servizi fino a quel momento riservati a pochi, non può negarsi che lo Stato che ha raggiunto questi obiettivi garantisce più equità, più sicurezza sociale e, quindi, più uguaglianza e maggior rispetto di sé ai propri cittadini.
Il tributo, insomma, non è un premium libertatis o solo l’altra faccia negativa del costo dei diritti. In un mondo disuguale quale il nostro, è soprattutto lo strumento non repressivo che uno Stato non meramente amministrativo ha a disposizione per correggere le distorsioni e le imperfezioni del mercato a favore delle libertà individuali e collettive e a tutela, appunto, dei diritti sociali. Esso limita la libertà, i diritti proprietari e le stesse potenzialità economiche dell’individuo, e in ciò sta indubbiamente un sacrificio individuale; per aumentare però la libertà stessa e il godimento dei diritti, e in ciò sta la sua funzione promotrice nell’ottica sia dell’equo riparto che dell’etica della responsabilità.
È sull’uguaglianza – a seconda delle opinioni, uguaglianza di risorse e di opportunità ovvero di capability – che si fondano, in ultima analisi, la legittimità etica dello Stato sociale e la sua funzione mediatrice e distributiva. E se per uguaglianza si intende – come si deve intendere – l’eguale interesse che lo Stato deve avere per ogni cittadino da cui pretende il rispetto delle leggi, va da sé che la sua legittimità non dipende altro che dalla eguale cura che, attraverso le leggi medesime, esso mostra per la sorte e le libertà di ciascuno dei suoi cittadini e, di conseguenza, dal suo trattarli come eguali e con uguale rispetto. E per fare ciò e far acquisire e mantenere ai cittadini medesimi i necessari autorispetto e dignità e un’eguale dose di libertà e di chances, esso Stato è autorizzato a porre, sul fronte sia del reperimento delle risorse che della destinazione delle spese, una serie di “costrizioni” legali alla distribuzione della ricchezza nazionale e alla fruizione in regime concorrenziale dei diritti patrimoniali; costrizioni che trovano un limite solo in altri diritti e principi fondamentali inviolabili, primi fra tutti i principi – corollari di quelli di uguaglianza e solidarietà – di razionalità, coerenza, congruità e capacità contributiva.
Sul piano etico, giustizia o ingiustizia nella tassazione dovrebbe, perciò, significare giustizia o ingiustizia in quel sistema “convenzionale” di diritti proprietari ed economici quale risulta dal regime legale di tassazione. Il che equivale a dire, più semplicemente, che questi diritti dovrebbero essere riconosciuti, tutelati e garantiti nel loro nucleo essenziale come imprescindibili e naturali strumenti dell’autonomia privata, ma nel contempo dovrebbero essere anche bilanciati, conformati e intrecciati con regole e leggi disegnate dallo Stato per assicurare altri diritti, altri valori e altre forme di ricchezza immateriali, come il benessere e la giustizia sociale, la sicurezza delle aspettative e la promozione dello sviluppo.
Cosa sarebbe, del resto, la società nei Paesi a capitalismo responsabile se si ragionasse esclusivamente in un’ottica di autoreferenzialità del mercato e in termini solo di stato minimo, di prevalenza (e non di bilanciamento) dei diritti proprietari rispetto a quelli sociali? E, soprattutto, quale situazione sociale avremmo oggi e di quale libertà godremmo se, attraverso l’intervento pubblico regolatore, non si promuovesse l’equità di quello che gli economisti chiamano lo “scambio fiscale” e non si garantissero, insieme ai diritti proprietari, anche i cosiddetti diritti “presi sul serio”, e cioè i diritti di libertà dai bisogni essenziali, su cui tanto hanno scritto Holmes, Sunstein e Berlin?
È su questi presupposti etici e giuridici che, nell’era contemporanea, i governi dovrebbero edificare tanto i sistemi fiscali da applicare nel mondo reale quanto le politiche sociali della spesa. In ogni caso, si dovrebbe evitare che apprezzabili strategie fiscali dirette alla riduzione del gettito siano adottate solo per «affamare la bestia», e cioè per contrarre drasticamente la spesa pubblica anche sul fronte – cruciale ai fini della realizzazione di una moderna welfare community – della demografia, della sanità e della sicurezza. La spesa pubblica va senza dubbio contenuta, riqualificata e razionalizzata, ma solo perché eccessiva e inefficiente e non perché lo impone la previa strumentale riduzione della pressione fiscale. Naturalmente anche questa è eccessiva e perciò va ridotta, ma in dipendenza della riduzione della spesa, della sua ripartizione e del recupero dell’evasione.