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 2015  novembre 02 Lunedì calendario

L’infanzia in Sicilia, l’Accademia a Roma, l’esempio di Carmelo Bene e i complimenti di Totò Riina. Intervista all’attore Claudio Gioè

È cresciuto nella Palermo delle bombe per ritrovarsi, qualche anno dopo, a interpretare Totò Riina, il capo dei capi che decise che Falcone e Borsellino dovevano saltare in aria. Non solo. Un giorno, per caso, trova in aeroporto uno dei sei avvocati del carnefice di Corleone: “Sa che ha apprezzato? Dice che lei ha costruito una bella interpretazione, gli assomiglia”.
Claudio Gioè, classe 1975, già partito dalla Sicilia con una valigia zeppa di sogni e poche camicie per l’Accademia d’arte drammatica, oggi attore di teatro e fiction, dagli occhi rapidi come il cervello, gli dice: “Forse è la prima ammissione di colpa del suo cliente, Riina. Non crede? Almeno, lo è indirettamente”.
Ma l’avvocato, se ne esce con un contropiede che è una risata. “Ci salutammo”.
Perché lascia Palermo per Roma, con l’intenzione di fare l’attore?
Al liceo classico avevamo messo in piedi una serie di spettacolini, funzionavo, riempivano di pacche sulle spalle. Così mi iscrivo a lettere e decido di giocarmi la carta dell’Accademia.
Così, senza sovrastrutture né raccomandazioni?
Niente. Vado a una selezione con altri cinquecento ragazzi e ci prendono in quindici.
E non aveva mai fatto una scuola di recitazione?
No, e forse è stata la mia fortuna. In genere si arriva con molti difetti che non ci si scrollano di dosso, all’Accademia preferiscono persone da formare dall’inizio, per niente impastate.
È lì che fa scrivere sulla carta d’identità professione attore?
Questo non lo ricordo. So che ancora oggi, quando mi chiedono la professione, si mettono a ridere, mi guardano come chiedere: va bene, mi dica anche il lavoro vero adesso.
Il suo grande amore è stato il teatro?
E rimane. Mi piaceva anche la regia teatrale, ma ai primi due spettacoli, ho iniziato a fare i provini, perché col teatro non si batte un chiodo.
C’è una figura d’artista che la spinge a cercare la recitazione?
Carmelo Bene. Che ho visto. Ho avuto la fortuna di stringergli la mano, quello per me è il grande teatro. Forse l’ultimo grande teatro.
Lo sa che c’è chi divide il genere umano tra due categorie: quelli che il 30 giugno del 1981 erano sotto la Torre degli Asinelli a Bologna, dove Bene recita l’Inferno e lo dedica ai feriti a morte della strage, e quelli che invece no, non c’erano?
Ero troppo piccolo, ma quella copia malfunzionante che ne uscì l’ho vista e rivista.
Chi c’era con lei all’Accademia che oggi conosciamo?
Nomi famosi nel mio corso no. Feci in tempo a incrociare Giuni e Luigi Lo Cascio, che frequentavano il terzo anno quando entrai.
C’è una persona alla quale è più riconoscente di altri?
Mario Ferrero, morto quest’anno, è quello che mi ha insegnato il teatro. È stato un grandissimo regista, ha fatto in tempo a lavorare con persone come Visconti e Patroni Griffi.
E il primo ruolo quando arriva?
Con Luca Guadagnino, regista che oggi vive una dimensione internazionale. Prima con un cortometraggio, poi con un film.
Dopo arriva Marco Tullio Giordana?
Mi sceglie per i Cento passi, e quello segna un punto di svolta nella mia carriera, recito il ruolo di Salvo Vitale, l’intellettuale che lavorava al fianco di Peppino Impastato. Peppino era l’estro, lui, Salvo, rifletteva e trovava la via di svolta. Dopo ancora lavoro per il primo lungometraggio di Maria Sole Tognazzi, insieme a Claudio Santamaria, ma faccio poco altro.
Lei non è un attore di cinema.
Ho avuto un approccio col cinema molto difficile, ho trovato molto nella fiction, in quello che è il settore criminale, ma che ha segnato un punto di svolta. La tanto sbeffeggiata televisione ha segnato in realtà una mia svolta. Ma prima sono stati anni di disoccupazione, noi siamo precari.
Nel frattempo mette in scena una cosa sua, però, Caligola Night Live.
Sì, e anche quello è un piccolo omaggio a Carmelo Bene. Ricordo un mese intero al ridotto dell’Ambra Jovinelli, poi al teatro dell’Orologio. Molto bello, dentro ci sono le mie nevrosi, le difficoltà, le aspettative. C’è molto della mia vita.
E da Carmelo Bene finisce a Totò Riina.
Nasce con una gaffe. Io in quel periodo facevo L’Istruttoria con Claudio Fava. Un giorno dico: sapete che Mediaset produce una fiction su Riina? Fava alza gli occhi, mi guarda: la sto facendo io. E mi scelsero. Nonostante avessi milioni di perplessità.
Perché non lo voleva fare?
Ero dubbioso. Ma non perché andavo a interpretare il Male, quella è la finzione. Ma perché non pensavo che potesse avere il successo che ha avuto, pensavo alle difficoltà nel calarmi nei panni di quest’uomo del quale non si sapeva niente, perché non ha mai parlato o lo ha fatto con mezze frasi.
Lei, da ragazzino, aveva la percezione della mafia a Palermo? Si sentiva quell’aria intossicata dai silenzi?
No, non sapevo cosa fosse, oltre il termine. La mafia era negata fino agli anni Novanta. Quando ammazzano Borsellino capiamo tutti che tutti sapevamo che sarebbe accaduto. Non accade per me ragazzino, accade per Palermo. La borghesia che aveva sempre negato la mafia per comodità è costretta a crederci.
Pensa, come Pietrangelo Buttafuoco e Pif, che si debba togliere l’autonomia alla Sicilia?
No. La nostra carta è una conquista storica. Basterebbe cambiare questa classe dirigente e le loro ruberie. Sarebbe più semplice.
Quando torna in Sicilia, a casa, come la trova?
Sempre peggio. Un malato cronico che non ha la forza di alzarsi.
Torniamo al lavoro: stasera debutta una fiction nuova, giusto?
Due puntate sull’arresto di Antonio Iovine dopo 15 anni di latitanza. Io interpreto Michele Romano, poliziotto ispirato alla figura di Vittorio Pisani, il poliziotto che mette le mani su Iovine e il giorno dell’arresto impone ai suoi ragazzi di non portare il passamontagna, perché quello lo usano i ladri. Forse per la prima volta, nel rivedermi, mi sono commosso. E se hai la forza di piangere vuol dire che feci bene a partire con quella valigia vuota e che forse vale ancora la pena di lottare per uno Stato migliore di questo.