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 2015  novembre 02 Lunedì calendario

Pupi Avati racconta come fu che scrisse la sceneggiatura del “Salò" di Pasolini, film che poi non vide mai per intero

«Quando andai a vedere Salò riuscii a guardare l’inizio e poi uscii, perché venivo restituito alla sofferenza delle notti in cui ci avevo lavorato e mi sentivo violentato da una storia di un’atrocità senza limiti».
Pupi Avati è autore della sceneggiatura dell’ultimo, terribile film di Pasolini, anche se il suo nome non compare nei crediti a causa delle complicate vicende produttive. A 40 anni dalla morte del poeta, il regista bolognese racconta come nacque il progetto di ricavare una pellicola dal libro di De Sade, e di come si trovò a scriverne i dialoghi con Pasolini: «L’idea venne a Enrico Lucherini, il press agent, che propose a Euro International di produrre un film da Le 120 giornate di Sodoma sulla scia del successo dei vari Decameron di allora. La regia sarebbe stata affidata a Vittorio De Sisti, la sceneggiatura a me, Claudio Masenza e Antonio Troisi».
Nonostante gli addolcimenti e le limature alle scabrosità del testo di De Sade, Avati si rendeva conto che la sceneggiatura sarebbe stata indifendibile in sede di visto-censura, e così pensò di coinvolgere indirettamente il regista friulano: «Se il film fosse stato girato da Sergio Citti, di cui proprio allora usciva Storie scellerate, avremmo avuto la protezione di Pasolini. Gli portammo il copione, che non gli piacque. Era invece incuriosito dal libro, che all’epoca era introvabile. Andai con la mia copia nella sua casa in via Eufrate, all’Eur. Mi fece qualche domanda e poi mi disse: “Se dovessimo riscrivere la sceneggiatura, lo faresti?”. Naturalmente accettai, con l’imbarazzo di dover raccontare di quell’offerta ai miei sodali».
È il 1972 quando comincia il lavoro di scrittura: due volte alla settimana Avati si reca all’Eur per incontrarvi Citti e Pasolini. «I primi cambiamenti ci furono con lo spostamento delle ambientazioni dal Settecento alla Repubblica di Salò. Poi l’impresa si complicò, perché Pier Paolo aggiungeva versi tratti da Les fleurs du mal di Baudelaire, che sommavano violenza a violenza. Lui era di un grande nitore nelle spiegazioni, ma voleva andare sempre oltre: c’era qualcosa di funereo, mortuario, tremendo, e io mi ritrovavo a scrivere di quell’inferno di notte, da solo. Ma naturalmente ero molto lusingato dal fatto di lavorare per Pasolini».
Avati ricorda anche il contrasto fortissimo fra l’atmosfera familiare della casa di via Eufrate, dove il regista viveva con la madre e la nipote, e la cupezza dell’adattamento dell’opera di De Sade: «Capitava magari che mentre approfondivamo tematiche di coprofagia si affacciava sua mamma a chiedere se a cena lui voleva mangiare la cotoletta».
Poco tempo dopo la casa di produzione fallisce e il film salta, ma all’inizio del 1974 Avati incontra Pasolini in un ristorante romano a pranzo con Laura Betti: «Mi disse che aveva in mente di fare un film su San Paolo, e io gli dissi: “Ma perché non lo fai tu, Salò?”. Mi rispose che non aveva più la sceneggiatura, mi offrii di portargliela: lo feci il giorno dopo e fu l’ultima volta che lo vidi».
Un paio di mesi più tardi, i legali della nuova produzione lo avvertono che a causa del fallimento del primo produttore, Avati dovrà rinunciare ad apparire fra gli autori, e così fu. «Lavorando con Pasolini ho avvertito una premonizione: c’era disperazione, una sensazione di buio, di baratro. Pier Paolo era lucido, una persona di grande genio, per me fu un’esperienza formativa. Salò somiglia a com’era lui in quel momento della sua vita».