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 2015  novembre 02 Lunedì calendario

Dawn Powell, la simpatica ubriacona che ha descritto la magnifica New York dei primi anni Cinquanta. Esce ora da Fazi il suo “Café Julien” (The Wicked Pavilion)

Dawn Powell finì di scrivere Café Julien (titolo originale “The Wicked Pavilion”) nel febbraio del 1954. Era il suo tredicesimo romanzo e le era costato più di quattro anni di lavoro, un tempo lungo e inquieto, offuscato da una improvvisa difficoltà creativa (nei primi diciotto mesi era riuscita a completare solo quattordici pagine), incupito dalla perenne mancanza di soldi, straziato dalla infelicità dell’unico figlio, Joseph detto Jojo, che a trentatré anni era sempre più prigioniero di una forma grave e violenta di autismo. Eppure in questo come negli altri suoi romanzi ritroviamo solo leggerezza e ironia, grazia e passione, arguzia e umanità, come se l’esercizio della scrittura avesse consentito all’autrice di separarsi del tutto dalla sua ansiosa vita personale e dalle sue dolorose difficoltà.
Dawn Powell ci fa sorridere in continuazione con la sua intelligenza brillante e il suo sguardo affettuoso ma anche sarcastico, che scatta curioso e a volte spietato su una folla di personaggi, alcuni riconoscibili – intellettuali veri e finti, artisti affamati, furbi millantatori con la loro corte di doviziose mecenati e puerili esegeti, affascinanti provinciali innamorati della grande misteriosa città, bellezze sulla strada del tramonto attaccate al sesso e al bicchiere, ricchi sospettosi e devianti – in quegli anni di un fulgido e giovane secondo dopoguerra, già offuscati, soprattutto negli Stati Uniti, dalla paura del comunismo, del disastro nucleare e da un moralismo avvilente e distruttivo.
Splendono però, in quel periodo ancora vivace e pieno di promesse (la storia si svolge nel 1948), oasi di vivacità creativa e di colta voglia di trasgressione, in quello spazio memorabile, per anticonformismo e libertà, che fu, e non è più neppure nei film di Woody Allen, dentro New York, dentro Manhattan, il Greenwich Village, con le sue stradine e le sue case basse e i ristoranti a poco prezzo e soprattutto quei bar dove scorrevano i pettegolezzi, nascevano amori e tradimenti, gli artisti squattrinati si ubriacavano, discutevano, litigavano, sognavano e progettavano successi irrisori cui del resto erano loro i primi a non credere.
Il luogo che nella vita Dawn Powell preferiva e che poi sarebbe diventato il Café Julien del romanzo, era il Lafayette Hotel; situato tra la 9th Street e University Place, aveva almeno un centinaio d’anni, ricreava una atmosfera francese anche negli scontrosi camerieri, ostentava una certa eleganza rispetto allo studiato spirito bohémien del Village, serviva bevande mediocri e costava più di altri. Agli inizi degli anni Cinquanta sarebbe stato demolito e sostituito da un orrendo casone residenziale, senza rimpianti da parte della scrittrice, che pure ci aveva passato molto del suo tempo, ma si era già impossessata di un nuovo rifugio alcolico, il Cedar Bar, dove si ritrovavano gli artisti del movimento che era stato etichettato Espressionismo Astratto: là la scrittrice incontrava Jackson Pollock, Willem de Kooning, Robert De Niro senior, Franz Kline, e osservava incantata i tanti intrighi amorosi, le ragazze che puntavano ad andare a letto con artisti affermati e gli stessi artisti che ne approfittavano entusiasti; queste storie le avrebbe raccontate, anni dopo, nel suo ultimo romanzo, The Golden Spur, pubblicato nel 1962, tre anni prima di morire di cancro, a sessantotto anni.
Al bar del Lafayette Hotel la sua postazione era un tavolo d’angolo da cui poteva controllare chi entrava e invitare i suoi amici, artisti e scrittori, a chiacchierare con lei. Era una conversatrice spiritosa e anche spregiudicata, e Matthew Josephson così la descrive in Life among the Surrealists: «Improvvisava le sue storie, ascoltava i racconti e i pettegolezzi degli altri, e dalla conversazione, dai pettegolezzi, dagli intrighi quotidiani, dagli accoppiamenti e dalle separazioni, plasmava i suoi romanzi». Così invece la ricorda Andrew Wanning, citato da Tim Page nella bella biografia della scrittrice (pubblicata in Italia da Fazi nel 2000): «Quando aveva ingurgitato la giusta quantità di alcol era la donna più buffa che avessi mai conosciuto. Sobria non l’ho mai trovata altrettanto divertente, e quando aveva bevuto troppo non era per niente buffa. Diventava piuttosto rumorosa e litigiosa». Ed è tra i tavoli dal piano di marmo del malandato eppure affascinante Café Julien che si muove la piccola folla di personaggi di The Wicked Pavilion, come su un palcoscenico su cui, da appassionata e crudele regista, la scrittrice dirige la casualità e l’intreccio delle loro vite. C’è il bel giovanotto venuto dalla provincia che torna tra gli altezzosi camerieri nella speranza di ritrovare un amore perduto, c’è l’insopportabile editore «reduce da una mezza dozzina di fallimenti», c’è il pittore sfortunato e senza un soldo, e la ricca seduttrice arrogante e la signora molto alternativa e generosa: c’è pure un fantasma, quello del pittore snobbato in vita, cui la morte regala celebrità e valore mercantile, al centro di quelle conversazioni mondane, fatue e spietate, che la scrittrice sa raccontare così bene.
Dawn Powell era innamorata di New York, come tanti personaggi dei suoi romanzi: ci era arrivata da sola nel 1918, mentre la prima grande guerra stava per finire.
Nata nel novembre del 1896, aveva ventun anni e quattordici dollari, era piena di ambizione, coraggio e talento, decisa a conquistare il successo come autrice. Lasciava per sempre l’Ohio e tutti i piccoli paesi dove aveva vissuto malamente, un’infanzia straziante segnata dalla morte, probabilmente per un aborto, dell’amatissima mamma, e da una odiosa matrigna che tormentava le tre figlie del marito, commesso viaggiatore, detestando più di tutte Dawn, tanto da arrivare a bruciare per odio i suoi primi scritti adolescenziali. La ragazzina era scappata, accolta da una zia materna geniale e generosa, aveva frequentato l’università e si era laureata, come poche donne allora osavano fare, e finalmente, dopo altre brevi esperienze, aveva realizzato il suo sogno, cercare fortuna letteraria nella allora pare meravigliosa New York. «Esiste davvero una città per tutti, proprio come esiste un grande amore. New York è la mia città perché ho un investimento al quale posso sempre attingere, un investimento senza fondo di ventun anni nel quale ho accumulato un’idea di New York quindi qualsiasi cosa succeda, ho la roccia dei miei sogni che nulla può distruggere», scrisse nel suo diario nel marzo del 1953.