Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 02 Lunedì calendario

Do you remember Boom Boom Mancini, l’uomo che uccise Kim sul ring e si ritirò per il rimorso a 24 anni? Intervista

NEW YORK È l’uomo che ha ammazzato la boxe. Al 14esimo round. Con un pugno solo. Trentatré anni fa il pugilato divenne brutto e cattivo. Perché un ragazzo fece scoppiare la testa di un altro, nell’82 a Las Vegas. Ray Boom Boom Mancini, il primo, aveva 21 anni, Duk Koo Kim, il secondo, 23. Cambiarono anche le parole: l’americano Ray era l’uccisore, il coreano Kim l’ucciso. La morte non finì lì: si spense Kim, ma si suicidarono anche sua madre e l’arbitro dell’incontro. Un pugno e tre cadaveri. Non era più un ring, un mondiale superleggeri Wba, ma un delitto su commissione. Il mandante era la boxe: sport assassino. Il mondo si mobilitò, anche la chiesa cattolica si schierò: era inaccettabile togliere la vita in quel modo. Ray Boom Boom divenne l’immagine di uno sport sbagliato. Troppi pugni dati e presi quando il fisico è allo stremo. Così la boxe cambiò: 12 riprese al posto di 15, ring con più corde, più tutela sanitaria, Tac obbligatoria. E così l’uomo che uccise la boxe la salvò anche. Ray Boom Mancini oggi ha 55 anni, tre figli, si è risposato, produce film e commercia vini. Non ha più la folta chioma giovanile, ma il naso da pugile gli è rimasto.
 
Ray, quel pugno fece male al mondo.
«Vorrei non averlo dato. Non me ne vergogno, ma nemmeno mi perdono. Da quel momento la mia vita è stata un ergastolo. Avevo 21 anni, e un grande futuro. Ray Sugar Leonard si era appena ritirato, io ero il suo erede. L’ all american boy che tutti volevano essere. Ero popolare, venivano in 55 mila a vedermi. Ho disputato 34 incontri, 29 vinti, 5 persi, non ero tipo da pareggio. Ero l’eroe della gente, quel good son che tante famiglie sognavano. In più avevo subito una tragedia personale: a mio fratello maggiore, per sbaglio, la sua fidanzata aveva sparato in testa. Io avevo scelto di fare il pugile perché mio padre Lenny, originario di Bagheria, Sicilia, nel ‘44 aveva dovuto lasciare il ring: una granata tedesca in guerra l’aveva ferito in maniera grave. Rientrò, ma non era più quello di prima e a 28 anni si ritirò».
Anche lei dopo Kim non fu più quello di prima.
«No. Mi si era spento qualcosa dentro. Uccidere qualcuno per sport non è bello. Caddi in depressione, mi salvò il prete che mi era sempre stato accanto, a Youngstown, il mio paese. Padre O’Neill disse che tutti portiamo una croce per gli altri, ma che soprattutto non dovevo perdere la capacità di far sognare. In tanti vedevano in me un pugile aggressivo, ma leale. Fu dura lo stesso. La sera dell’incontro tornai in stanza e mia madre piangeva. Le dissi: non farlo, abbiamo vinto. Ancora non sapevo che Kim era stato portato all’ospedale».
Fu un match molto combattuto.
«Pieno di botte, ero malconcio anch’io: orecchio accartocciato occhio sinistro chiuso, mano gonfia. La mia bocca aveva respirato sulla sua, potevo dire di conoscere Kim meglio di sua madre. Ero alla mia seconda difesa mondiale, non volevo mollare, ma lui tornava sempre sotto».
Gli mollò 39 cazzotti nella tredicesima.
«Più o meno. Ma non tutti andarono a segno. Forse ero un po’ in vantaggio o eravamo pari. Non c’era molto squilibrio. Per questo dopo il match andai al concerto di Frank Sinatra che era un mio fan. Volevo premiarmi, avevo vinto un incontro bestiale, ma incerto fino alla fine».
Kim moriva e lei applaudiva Sinatra?
«Non sapevo l’avessero portato in sala operatoria. Me lo disse il mio allenatore, ma io ero già al concerto, non potevo essere scortese e andarmene, anche se dentro di me iniziavo a stare male. Nessuno mi avvisò che stavano operando Kim al cervello. Morì quattro giorni dopo, aspettarono arrivasse la madre dalla Corea per staccare la spina».
Il patologo disse che il colpo mortale era stato uno: il destro nella 14esima.
«Io so che divenni un uomo disperato. Chiamai la famiglia di Kim, mia madre aveva un’amica coreana che al telefono fece da traduttrice, mi offrii di andare al funerale, ma il suo governo fece sapere che non ero ben visto e non poteva garantire per la mia sicurezza. Mi ritrovai mostro in prima pagina, ero il manifesto di tutto quello che non andava nella boxe, il criminale del mondo. Ovunque: nei giornali, nella tv. Non c’era paese che non chiedesse l’abolizione del pugilato. Dovevo quasi scusarmi di essere a piede libero. Mi condannò anche la Chiesa, e per me che sono cattolico fu un colpo. Come se avessi venduto Gesù. Tutti mi guardavano male e poi c’erano gli altri».
Gli altri chi?
«Quelli che mi fermavano per strada: Ray, cosa si prova ad uccidere un uomo? I ragazzini che mi venivano incontro urlando: sono Kim, dai ammazzami».
Poi la madre di Kim scolò una bottiglia di pesticida.
«Sì, tre mesi dopo. Lo fece di proposito. E un anno dopo si sparò anche l’arbitro dell’incontro, Richard Green. Dissero per i sensi di colpa, poi ho saputo che era depresso. La scia di sangue continuava».
Citarono Griffith che nel ’62 aveva condannato a morte Paret.
«Non ci sto. Quella fu una vendetta sul ring. Paret gli aveva gridato frocio, gli si era strofinato contro. In sei secondi Paret fu punito con 47 pugni che gli staccarono il cervello. Benny non schivava più niente: aveva gli occhi chiusi, gli usciva sangue dal naso. Kim invece era reattivo, continuava a farsi avanti».
Lei tornò sul ring tre mesi dopo.
«In Italia contro l’inglese Feeney. Con una pressione pazzesca. Vinsi ai punti. Ma Bob Arum, il mio manager, mi avvisò: nei tuoi occhi non vedo più scintille. Due anni dopo mi sono ritirato. Avevo appena 24 anni, ma dentro ero morto. Sono rientrato e di nuovo ho abbandonato».
Ha accettato di incontrare il figlio di Kim.
«Sì, allora Kim era fidanzato e lei aspettava un figlio, ma nessuno lo sapeva. Quando hanno girato un film su di me mi hanno chiesto se me la sentivo di conoscerlo. Sì, ho risposto, fatelo venire a casa mia, ma sia chiaro: non voglio ripetere la scena. Dire che tremavo era poco. Così ho conosciuto Chi Wan, che fa il dentista, e sua madre. È stato gentile, mi ha detto: ‘Vengo a sollevarti dal rimorso’».
Lei però ha reso più sicura la boxe.
«La Wbc ridusse subito i round: da 15 ai 12. Seguì la Wba nell’88 e l’Ibf nell’89. Ma come non l’avevo ammazzata, non l’ho nemmeno salvata. Per me è stata la tv a volere incontri più brevi per piazzarci più pubblicità. Io sono stato solo una buona scusa. E anzi sono contro questa modifica. Sono amico dello sceneggiatore David Mamet che mi ripete che la boxe è meglio di Shakespeare. Ma per esserlo ha bisogno di atti lunghi. Cosa sarebbero stati Marciano, Alì, Leonard senza il quindicesimo round? È quando non hai più fiato che devi trovare la voce. E quella si chiama tragedia. Ma non ha bisogno di morti».