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 2015  novembre 02 Lunedì calendario

Do you remember Gigi Lentini? Adesso gioca a biliardo

CARMAGNOLA Una cassetta della posta grigia, la targhetta, sopra c’è scritto Lentini Gianluigi. Dove finiscono i prati, comincia una costruzione bassa e lunga che è almeno quattro cose insieme: ristorante/pizzeria, palestra di arti marziali, sala biliardo e appartamento di Gigi. «Quando mi sono separato ho scoperto che avevo tanto spazio, troppo. E allora l’ho riempito».
Riempire lo spazio, il tempo. Riannodare tutti i fili di una storia oppure nessuno. Un grande campione, il Toro, il Milan, l’incidente, una carriera spezzata. I rimpianti, e chi non ne ha? «Potevo essere molto di più, anche se ormai ci penso poco».
Il paese: Carmagnola. Appena usciti da Torino è la strada che punta in basso, verso il mare. Il suo paese. «Un posto vale l’altro, e allora è meglio stare nel proprio». C’è una scrivania spoglia, dietro l’ingresso che è anche l’atrio della palestra. Ogni tanto qualcuno suona il campanello, lui si alza e va ad aprire, «ciao Gigi», «ciao, come butta?». Una vetrina di cristallo, qualche trofeo, qualche vecchia maglia da calcio. «Ho regalato quasi tutto. Ho tenuto quelle del Milan, del Toro, della nazionale, una del Real Madrid, quella dell’Atalanta del mio amico Pisani, che morì in auto insieme alla fidanzata. Non vivo di ricordi».
Gigi Lentini era un giocatore enorme. Potente e tecnico, una specie di Cristiano Ronaldo un po’ Meroni. Irregolare, ombroso. «Ma non testa di cazzo, chi mi conosce lo sa. Sempre stato un ragazzo tranquillo. Del calcio mi piaceva solo il campo, tutto il resto no. Mai pensato al dopo, anche se in questo dopo ci sto benissimo. Mai pensato di diventare allenatore. Non mi sono preparato a niente».
I muscoli sembrano chiedere il permesso di uscire. Lentini ha ancora un corpo debordante, e sempre quell’ombra sottile negli occhi, quasi una malinconia che non sa di esserci. «Ogni tanto la gente mi chiede, ma che fine hai fatto? Io non sto in tv, non sono diventato opinionista, alle cene dei club granata non vado quasi mai, anche se mi invitano spesso. Ho quarantasei anni, negli ultimi tempi avevo giocato con il Canelli in Eccellenza, poi Saviglianese in Promozione, Nicese che sarebbe la squadra di Nizza Monferrato, Carmagnola. E sempre col mio amico Diego Fuser, anche lui del Toro. Inseparabili. Io senza più cartilagini, senza un crociato anteriore ma con un fisico da bestia, modestamente. Non ho il patentino, non ho una strada nel calcio, mai stato un leccaculo».
Adesso gli piace giocare a biliardo. «Sono bravo, anche se contro i campioni divento nessuno. Faccio i tornei provinciali. Quando arrivo, la gente a volte mi guarda strano, poi smetto di essere Lentini e ogni cosa va a posto: sono solo un giocatore di biliardo. Cinque birilli o goriziana, nove birilli. Mio papà Luigi mi veniva a prendere all’allenamento quand’ero bambino e mi portava con lui. Lo guardavo giocare, mi incantavo. La stecca, il panno verde, la luce sopra».
I pensieri passano svelti dietro lo sguardo, escono sottovoce ma potenti. «Mai stato depresso però capisco che possa succedere, ci sta, il calcio non è come lo credete voi. Se non avessi picchiato con l’auto e battuto forte la testa, era il 2 agosto del 1993, sarei stato una bestia per tanti anni ancora. Mi sentivo un leone, nei test nessuno aveva i miei valori in quel Milan in quanto a velocità, potenza, tecnica, resistenza. Ricordo che bucai la gomma e che mi fermai all’autogrill per farmela cambiare da un benzinaio. Ricordo che percorsi ancora qualche chilometro, poi c’è il vuoto. Avevamo giocato a Marassi, io stavo tornando a Torino». Da Rita. «Ma dov’era il problema? Con Schillaci si era già lasciata e io ero libero. Venne all’ospedale, sapeva che tutti l’avrebbero vista, se ci fosse stato qualcosa da nascondere lo avrebbe fatto?». Due giorni tra la vita e la morte, il coma, il risveglio. «All’inizio parlavo come un bambino. Avevo i riflessi lenti e non me ne accorgevo. Anche in campo, quando tornai, ero lento, ma ogni cosa poi andò a posto, due stagioni dopo ero di nuovo fortissimo, ero sicuro che avrei giocato la finale di Coppa dei Campioni 1995, Milan-Ajax a Vienna. Invece Capello mi tenne fuori, lui non dà mai spiegazioni. Crollò tutto. Persi la voglia, sbagliai. Quella sera è finita la mia carriera».
Il resto è un attorcigliarsi attorno al gomitolo, Mondonico che lo chiama all’Atalanta («Hai finito di fare vacanza?, mi chiese»), il ritorno al Toro, il Cosenza. «Qualche altra soddisfazione me la tolsi, ma sempre con quella frase addosso: Lentini non è più lui. Un luogo comune, perché potevo giocare male anche prima dell’incidente».
Le giornate sono diventate lunghe, lentissime. «La mattina vado in palestra, mi rilasso. Il pomeriggio gioco a biliardo. Guardo un po’ il Toro e il Milan in tv, le squadre per cui tifo, e la Champions». Dice di non sentirsi solo. «Gli amici alla lunga li perdi, mica succede soltanto ai campioni. A volte penso che non ho mai fatto un mondiale e mi dispiace: senza l’incidente sarei andato a Usa ’94, e credo che avrei pure giocato. Sbagliai a dire che non volevo lasciare il Toro, era vero ma non dovevo dirlo, mi avevano già venduto e non lo sapevo, così sono passato per traditore. Berlusconi mi mandò a prendere due volte con l’elicottero, e la prima volta gli dissi no in faccia, a casa sua. Non andai là per i soldi. Il Toro non poteva fare a meno di vendermi, quei miliardi servivano a Borsano. E comunque, il primo scudetto nel Milan fu meraviglioso, come la finale di Coppa Uefa persa col Toro».
E adesso, Gigi? «Qualche volta gioco a calcetto, non sono una persona triste anche se mi piace rimanere tranquillo, senza pensare troppo, senza essere qualcuno». Un’altra ombra negli occhi, veloce. «Però, ragazzi, quanto mi sono divertito».