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 2015  novembre 02 Lunedì calendario

La rivalità tra i fratelli Bush. Mamma e papà preferivano Jeff, ma ora Trump gli ha rovinato la festa

WASHINGTON. Jeb Bush, che ormai si trascina dietro l’appassito punto esclamativo del suo logo elettorale, è così noioso che è difficile concentrarsi sulla natura epica della sua battaglia. Non quella contro Donald Trump, anche se la batosta che quest’ultimo gli ha inferto è stata uno spasso. La battaglia di cui parlo è quella delle beghe familiari in stile “Trono di spade”. Perché i Bush, si sa, si considerano la famiglia reale americana. A 91 anni George padre vive soltanto per vedere Jeb diventare presidente ed è sconcertato dal fatto che Trump, che considera un pagliaccio, rischia di detronizzare il delfino. Jeb ha raccontato che suo padre vorrebbe scaraventare contro la tv una scarpa tutte le volte che Trump compare: meno male che l’ex presidente indossa calzini di gran classe. Per non parlare del fatto che alcuni finanziatori di Jeb tengono duro solo per non mandare in frantumi le illusioni del vecchio patriarca.
D’altronde per il Mondo dei Bush, questa doveva essere l’elezione dove il dramma Caino-Abele di George W. e Jeb doveva trovare un lieto fine. E invece ci si è messo quel guastafeste di Trump.
Ho seguito la lotta tra i due Bush fin dall’inizio. Nel 1993 seguii Jeb nella sua campagna come governatore della Florida mentre W. correva per il Texas. All’epoca mamma Barbara si lasciò sfuggire che W. avrebbe fatto meglio a non candidarsi, perché non aveva possibilità di vincere. E Jeb era scocciato che il fratello maggiore si fosse presentato in Texas trasformando la campagna in una “storia da rotocalco”.
W. aveva vissuto i suoi turbolenti anni giovanili accompagnato dalla sgradevole consapevolezza che pur essendo il maggiore, i suoi genitori davano per scontato che sarebbe stato Jeb ad avere un brillante futuro in politica. Invece a 47 anni, lasciato l’alcolismo alle spalle e con la moglie Laura al fianco, era pronto a mettere a frutto cognome e soldi. Mi fu subito chiaro che come candidato il Bravo Figliolo non era scintillante quanto il Figliol Prodigo. W. non sapeva molto di politica, ma era lui quello brillante. Quando nei suoi comizi in Florida Jeb disse una battuta che funzionava, «Non mi candido a governatore perché sono il figlio di George e Barbara Bush, mi candido perché sono il padre di George P., Noelle e Jeb» W. gliela soffiò subito affermando: «Non mi candido a governatore perché sono il figlio di George e Barbara Bush ma perché sono il padre di Jenna e Barbara». Un furto con destrezza. La sera delle elezioni W. si infuriò perché suo padre era più rattristato dalla sconfitta di Jeb che entusiasta per la vittoria del figlio maggiore: ma poi prese in contropiede la famiglia arrivando alla Casa Bianca prima di Jeb. Che pure, in quell’elezione serrata e di misura, dovette aiutare il fratello a strappare ad Al Gore la Florida.
Questo doveva essere l’anno nel quale pareggiare i conti: Jeb avrebbe ottenuto quello che i suoi genitori consideravano suo diritto di nascita. Ma ora tutto è in dubbio: e pur non essendo i due fratelli particolarmente legati – e nonostante il coinvolgimento in Medio Oriente e l’azione inadeguata per Katrina di W. non siano asset utili in campagna elettorale – Jeb non può far altro che aggrapparsi a W. e al suo Asse del Male.
Così quando gli è stato chiesto se invadere l’Iraq fu una buona idea, Jeb ha dato quattro risposte diverse. Concludendo che non esclude il ricorso alla tortura e che far fuori Saddam fu “una buona idea”. Né può smettere di vantarsi di come suo fratello abbia protetto l’America: anche se Trump gli ha fatto notare che W. non aveva affatto capito che cosa avesse provocato l’11 settembre. Nella sua campagna strascicata Jeb ha dunque più di ogni altra cosa, riabilitato la reputazione pessima del fratello. Per W. è una rivincita: i suoi genitori si sbagliavano, l’erede naturale della stirpe era lui.
Oggi i fedelissimi di Jeb gli suggeriscono di essere più autoironico e sottolinere di più il sostegno dei latinoamericani su cui può contare. E pensare che prima della débâcle del dibattito, Jeb, privo d’entusiasmo, aveva proclamato: «Per essere uno che ha 62 anni sono in forma smagliante! Anzi, dovremmo organizzare dibattiti di 5 ore». Ma la campagna è stata caratterizzata dall’arrivo di Trump, piombato come un imitatore di Elvis a Las Vegas per far saltare l’incoronazione reale. Jeb, che era rimasto lontano dalla politica per 8 anni era tornato dando per scontato che i vassalli sarebbero stati pronti ad accoglierlo con grida di giubilo. Con Trump che lo sminuisce di continuo, accusandolo di essere privo di energia e di precipitarsi da Papà quando ha bisogno d’aiuto, si è reso conto che questo è un mondo diverso. La presidenza di suo fratello ha portato a Obama e Obama ha portato a una nuova categoria di repubblicani furiosi, i Tea-Party. Mentre era lontano dal palcoscenico il partito gli è passato avanti. Jeb ora è confuso: pensava di vivere in un’epoca in cui la gente salda i debiti. Sbagliava.