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 2015  novembre 02 Lunedì calendario

Ritratto di Erdogan, il camaleonte

C he sia un camaleonte, lontano mille miglia da un’idea realizzata di rigore (o pseudorigore) occidentale, che tanto seduce gli osservatori di un’Europa distratta, era chiaro fin dall’inizio. Troppi avevano sottovalutato l’ambigua capacità professionale del bravo portiere di calcio Recep Tayyip Erdogan, poi eccellente sindaco di Istanbul, e infine uomo capace di trasformare un neonato partito islamico in un vero e credibile centro di potere, nel Paese laico creato dal fondatore Mustafà Kemal Ataturk. Dimostrando che, decenni dopo Ataturk, non è il partito che fa il leader ma è il leader che costruisce l’anima e l’immagine del partito.
Quando Erdogan, che ieri ha trionfato per l’ennesima volta contro molte previsioni, ha accettato di sfidare l’immobilismo politico turco, paralizzato da un leader islamico pressapochista come Necmettin Erbakan, presentandosi come l’uomo nuovo, quasi nessuno ci credeva. Fino alle elezioni del 2002 quando, forte di un carisma invidiabile, riuscì a convincere anche i mangia-religiosi d’essere l’uomo giusto per raddrizzare una Turchia malata di instabilità politica. Prometteva crescita economica, accresciuta affidabilità, ottimismo, e poi di poter realizzare il sogno d’essere il punto di riferimento di un islamismo democratico, che doveva servire come esempio per l’intero Medio Oriente, e arginare le pulsioni estremiste dell’Islam, con l’obiettivo di accelerare il cammino negoziale della Turchia verso l’ingresso come membro effettivo dell’Unione Europea.
Erdogan non ha mai avuto un buon carattere. Anzi, il suo carattere è sempre stato pessimo. Arrogante? Sì, e ahimè temo sia una malattia assai contagiosa. Pieno di sé? Di sicuro, perché ha un solo desiderio: essere l’uomo solo al comando. Megalomane? Di sicuro. Soltanto un megalomane si sarebbe fatto costruire un palazzo presidenziale, fuori Ankara, con 1.200 stanze e una sala che somiglia a quella del sultano. Fragile? Probabilmente, visto che tre anni fa ha subito un intervento chirurgico per un tumore all’intestino, drasticamente ridotto dai medici. Sprezzante? Di sicuro. A noi giornalisti, durante una cena, aveva ordinato di scrivere che i guerriglieri curdi del Pkk erano soltanto dei fuorilegge terroristi. Intollerante? Certo. Non ha mai tollerato chi fumava, anche i suoi più stretti collaboratori.
Eppure il suo stile e la novità della sua ingombrante presenza piaceva a tanti. Il patriarca ecumenico degli ortodossi, Bartolomeo I, che mi onora della sua amicizia, disse, durante un’intervista al Corriere, che il premier era meglio dei predecessori, in tema di libertà religiosa. Ho avuto l’opportunità di incontrare Erdogan svariate volte. Una volta abbiamo persino discusso animatamente, perché dopo gli attentati di Istanbul si rifiutava di riconoscere che esistesse un estremismo islamico: «Islam e terrorismo è un ossimoro: al massimo le concedo di parlare di terrorismo religioso».
Tutto, però, gli veniva perdonato perché la Turchia, da baraonda di governi impossibili, era diventata un polo di stabilità. Erano lontani i tempi in cui l’ex presidente della Repubblica Suleyman Demirel, ricevendomi prima delle elezioni che avrebbero consegnato il Paese per la prima volta a Erdogan sintetizzò lo scenario, cioè la barriera del 10 per cento da superare per entrare in Parlamento, con una battuta: «Vorrei che entrassero sei partiti, mi auguro quattro, ma temo due». Difatti entrarono il partito islamico Akp e il partito repubblicano del popolo, cioè i laici, eredi di Ataturk.
Più volte Erdogan aveva chiesto che l’Ue aprisse le porte al suo Paese. Lo chiese anche a papa Benedetto XVI, durante il suo viaggio in Turchia. Poi è cominciata la deriva che molti hanno ritenuto dittatoriale. Ma il Paese, minacciato o più credibilmente impaurito, gli ha rinnovato il credito. Forse la vicenda dei profughi siriani e il pellegrinaggio della Merkel sono stati decisivi. Chissà. A volte si afferma l’idea che noi analisti siamo prigionieri di griglie interpretative obsolete. Ahimè, è possibile!