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 2015  ottobre 07 Mercoledì calendario

Quando tenutari e prostitute devono parlare la stessa lingua. Il proprietario di un bordello che voglia ottenere il permesso di affittarli alle lavoratrici del sesso è tenuto a parlare loro in un idioma da loro conosciuto. Lo dice una sentenza della Corte europea del Lussemburgo

Il proprietario di locali a luci rosse che voglia ottenere il permesso di affittarli alle prostitute è tenuto a parlare loro in una lingua da loro conosciuta. È quanto stabilito in una sentenza della Corte europea del Lussemburgo, che dà ragione al sindaco di Amsterdam in una causa intentata da uno dei proprietari delle famose vetrine in cui si espongono le donne disponibili al sesso a pagamento.
Quattro anni fa J. Harmsen, locatario delle finestre, fece domanda di nuovi permessi per affittare lo spazio a donne provenienti dalla Bulgaria e dall’Ungheria, nonostante gli fosse impossibile chiedere loro, in una lingua da loro compresa, se fossero vittime della tratta, obbligate cioè a vendersi, oppure lo facessero di propria iniziativa. Secondo gli avvocati di Harmsen, dovrebbe essere sufficiente utilizzare degli interpreti oppure le traduzioni tramite il software online. Per il sindaco invece la barriera linguistica significava che egli non poteva «direttamente e affidabilmente... formarsi una propria opinione sul background e le motivazioni della prostituta, senza la presenza di terzi che potevano influenzare le sue affermazioni».
Il caso unisce la necessità di proteggere i diritti del lavoratore con il tentativo di arginare gli abusi sulle donne vittime dei trafficanti del sesso. Da parte sua Harmsen aveva invocato una legge Ue del 2006 sul mercato unico dei «servizi» sostenendo che il sindaco olandese aveva nei suoi confronti un atteggiamento «discriminatorio» e «sproporzionato» rispetto allo scopo perseguito. I magistrati europei però hanno rigettato le sue argomentazioni dando la priorità alle motivazioni di «interesse pubblico» e giudicando del tutto proporzionata la condizione posta dal sindaco olandese.
La sentenza, emessa della Corte europea di giustizia con base in Lussemburgo, è del 1° ottobre, e rappresenta un raro incontro fra le libertà del libero mercato e l’industria del sesso europea. Nel darne notizia, il bollettino EUobserver ha citato una fonte presso la Corte europea secondo cui tale sentenza «non significa che i proprietari di bordelli debbano conoscere tutte le lingue, dato che i lavoratori del sesso potrebbero essere in grado di parlarne più di una. Andrebbe benissimo, ad esempio, se entrambi parlassero inglese». La stessa fonte ha sottolineato anche che ciò non significa che tutte le città Ue debbano per forza seguire l’esempio di Amsterdam, ma che se lo faranno non ci saranno appigli per contestare le restrizioni in parola.
Le leggi che regolano la prostituzione sono di competenza dei singoli stati, e i bordelli sono pienamente legali solo in Austria, Germania, Grecia e Olanda. Secondo la Ong olandese «La Strada International», impegnata a combattere il traffico delle schiave del sesso, il problema è nato con gli allargamenti dell’Ue negli anni 2004 e 2007, che hanno incluso 10 paesi dell’Est europeo, più poveri rispetto all’Occidente, portando molte donne vulnerabili a cercare lavoro nei paesi occidentali. Un studio recente della Commissione europea attesta che fra il 2010 e il 2012 i casi registrati di traffico umano sono stati 30.146, di cui quasi il 70 per cento ha riguardato donne avviate al commercio del sesso, mentre la maggior parte degli uomini finiscono per lavorare nel settore agricolo.