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 2015  ottobre 07 Mercoledì calendario

Giocare stanca: secondo uno studio (che non ha coinvolto l’Italia), un calciatore professionista su tre sarebbe depresso. Anche in Italia, comunque, «si tratta spesso di vite al limite, con grandi pressioni, in cui si passa dall’essere qualcuno a sentirsi una nullità. Si ragiona sempre e solo sugli stipendi, però dietro ai personaggi ci sono le persone»

Guardateli in campo. Sono 22 calciatori professionisti, come ce ne sono a migliaia: 7-8 di loro soffrono di sintomi di depressione e di ansia, 1 su 3. Lo dice lo studio più ampio sul tema portato a termine dal sindacato mondiale dei calciatori (FifPro): tra 607 giocatori in attività e 219 ritirati (in totale 826) il 38% e il 35% dichiarano di avere o avere avuto sintomi di depressione; il 23 e 28% hanno anche disturbi legati al sonno o all’abuso di alcol (il 9% di chi è in attività, il 25% degli ex).
Lo studio non coinvolge l’Italia, ma 11 Paesi, tra potenze del pallone e realtà più piccole: Belgio, Cile, Finlandia, Francia, Giappone, Norvegia, Paraguay, Perù, Spagna, Svezia e Svizzera. «Uno su tre è tanto, non so se in Italia la situazione sia migliore – spiega Damiano Tommasi, presidente del sindacato calciatori (Aic) –. Ma al di là dei numeri si tratta spesso di vite al limite, con grandi pressioni, in cui si passa dall’essere qualcuno a sentirsi una nullità. Noi cerchiamo di lavorare con le società su questo, ma anche il nucleo familiare gioca un ruolo chiave. Si ragiona sempre e solo sugli stipendi, però dietro ai personaggi – e oggi si diventa tali troppo in fretta – ci sono le persone, che magari fin dall’adolescenza hanno sacrificato tutto allo sport. Un azzurro molto importante mi ha detto tre anni fa: “Un calciatore non ha diritto neanche di essere triste...”. Le dinamiche personali, come per tutti, non sono solo quelle legate al lavoro».
L’ex presidente del sindacato inglese, Clarke Carlisle, ha tentato il suicidio. Il probabile portiere titolare della Germania al Mondiale 2010, Robert Enke è riuscito invece nel suo intento distruttivo, così come il giovane c.t. del Galles, Gary Speed. Le confessioni più sincere e più sollevate, visto che si è trattato di problemi risolti, sono state quelle di Gigi Buffon e dello spagnolo Guti. «Questi dati in effetti non mi sorprendono – premette la psicologa dello sport Marisa Muzio –. Confermano studi e ricerche condotte negli anni e la mia attività professionale sul campo. Attenzione all’allarmismo: la depressione ha tanti livelli di gravità, come non c’è dubbio che lo sport d’alto livello sia un grande generatore di ansia. Non credo, però, che manchino gli strumenti per intervenire, o meglio, per prevenire. Piuttosto è ancora carente una corretta cultura di gestione della dimensione mentale dell’atleta».
Ma il calciatore italiano sta meglio o peggio rispetto ai suoi colleghi stranieri? «In Italia, soprattutto nello sport dei campioni – spiega la Muzio – stanno aumentando le domande di intervento dello psicologo. Il fatto positivo è che le maggiori richieste nascano non necessariamente da situazioni di bisogno, o di disagio. Piuttosto, colgo che c’è una maggior consapevolezza dell’importanza del lavoro mentale, che può aumentare resilienza, concentrazione, empatia, o l’intelligenza emotiva. Quest’ultima è così importante nello spogliatoio. Proprio l’emotività di un atleta, se attivata nel modo corretto, migliora la performance. E non si parla solo dei giocatori: sono anche le competenze chiave di una leadership efficace in panchina».
L’Aic sta lavorando molto sul «fine carriera». «Puntiamo sulla formazione – spiega il vice presidente Umberto Calcagno – per rendere meno traumatico il momento dello stop. Ma non è facile spiegare ai più giovani i rischi del “dopo”. L’altro fronte è quello degli infortuni e delle malattie professionali degli ex. Per rendere tutto più umano bisognerebbe giocare meno». Senza la garanzia che l’anima non venga presa a calci lo stesso.