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 2015  ottobre 07 Mercoledì calendario

«Se Giulio Maria chiedesse alla sua professoressa l’etimo della parola “futuro” scoprirebbe che a differenza del “passato” (che ha a che fare con i “passi”), “ futuro” non rimanda a nulla. Deriva dal participio futuro latino del verbo “essere”: è una parola-parola, una pura categoria grammaticale». Stefano Bartezzaghi racconta l’ultimo libro di Michele Serra

Tutti i libri sono fatti di parole, ma i libri narrativi di Michele Serra vivono nel linguaggio anche in altro senso. Il linguaggio vi appare come un rifugio, provvisorio e precario, ma pure provvidenziale: l’ultimo rifugio possibile. Dopo il vasto successo degli “Sdraiati”, esce ora un nuovo romanzo, che ha un titolo allusivo e sospeso come un mantra laico: “Ognuno potrebbe” (Feltrinelli). È un romanzo che si compone di trenta scene, non indipendenti – una vicenda alla fine c’è – ma che potrebbero essere lette anche autonomamente. L’importante non è il passaggio da uno stato A a un stato B (come sarebbe:
delitto, investigazione, scoperta del colpevole) ma ciò che sta in mezzo. Il “frattempo” e anche, come lo chiama il protagonista, il “fralluogo”. Al posto di una trama serrata, una serie di immagini, piccole vicende (un minimo incidente causato da digitazione ambulante su smartphone; perdersi per una rotatoria; un black out in un ristorante), riflessioni che compongono a patchwork il quadro di una condizione umana che stenta a decifrarsi, ma non cessa di provare a farlo.
Quasi trentasei anni: cioè, vent’anni in più degli adolescenti Sdraiati dell’ultimo romanzo. Questa è l’età di Giulio Maria, protagonista e narratore: la stessa che il suo autore aveva quando cominciava a gettare scompiglio nel linguaggio politico italiano con la satira di Cuore. Ma quelli erano altri tempi, e altri trentacinquenni. C’era qualcosa su cui mordere, qualcuno da irritare, divisioni ancora nette fra generazioni, professioni, classi sociali, livelli culturali. Oggi, e non solo a quell’età, si vive una condizione da “non adulti a vita”: è l’essere ragazzi, in «un mondo di ragazzi di tutte le età – alcuni ancora con qualche dente da latte, altri rugosi e curvi, altri morenti – resi coetanei dal tempo refluo nel quale siamo finiti».
Il luogo è una qualsiasi, piatta e brumosa porzione di Pianura Padana, che il narratore chiama Capannonia con l’aria di non fare un calembour. Il tempo è quello che stiamo vivendo, o perlomeno attraversando, e non è meno malato del luogo. In quanto al luogo non solo le campagne che circondano i capannoni sono pressoché abbandonate: i capannoni stessi non sono più in esercizio e Giulio Maria fatica a vendere, finalmente, quello in cui il padre fino alla morte ha esercitato le arti del falegname e dell’ebanista, a fianco del capannone del fabbro Squarzoni, che invece resiste ancora. L’unico dinamismo in questo paesaggio oramai stagnante, fatto di “tubi e cubi”, lo porta la costruzione di nuove rotatorie stradali. In quanto al tempo, esiste solo come alternanza di giorno e notte o nella successione di brevi istanti, di cui Giulio Maria è diventato un misuratore umano infallibile: questo perché la sua attività consiste in una ricerca assegnata a lui e al collega Ricky (che al contrario di Giulio è “ottimista”). Sono antropologi, studiano le esultanze dei calciatori, classificandole per qualità e durata, in secondi. Ma il tempo della Storia è, appunto, “refluo”: pare essersi fermato o addirittura ripiegato su se stesso. Serra e il suo narratore, e di conseguenza i loro lettori, ne sono pienamente consapevoli. Quello che manca assolutamente è il futuro: la ricerca non pare avere grandi prospettive, i risparmi residui si assottigliano, la progressiva sparizione del lavoro manuale pare aver reso insensata ogni attività. E quando nelle cose non c’è più il senso, anche inteso come fine, l’antico “télos”, dove lo si cercherà?
Giulio Maria ha una passione per le etimologie: alla sua ex professoressa, severa quanto allora, chiede perché si ostina a chiamarlo “ragazzo” e da dove deriva il termine. Con la sua ragazza, Agnese, (“solidamente pragmatica”, come molte figure femminili di Serra) bisticcia perché lei si immerge nel suo iPhone, che Giulio battezza “egofono” interpretando la I iniziale come il pronome “io” inglese (così il “Ragazzo mucca” del primo romanzo di Serra era un “cow-boy” ricalcato in italiano). Sostiene che prima che un autoritratto fotografico, per “selfie” si intendeva gergalmente la masturbazione. Ricerca etimologica e creatività nominale: camminare guardando lo smartphone è da “digitambuli” e configura la “Sindrome dello Sguardo Basso”. Serra ha sempre dimostrato un certo gusto per la scelta lessicale preziosa e non sciatta, e lo si vede anche dalla sua onomastica: il fabbro Squarzoni, il “puntero uruguagio” Amos Medardi, la signora Kaumakis, il bancario Insoardi, la rockstar Caleb Followill dei “Kings of Leon”. Anche questo potrebbe essere preso come parte di una richiesta forte fatta al linguaggio: in assenza di senso, questo lo si cerca nelle parole e nei nomi, sperando che lo conferiscano alle cose.
Serra raccoglie, tramite il suo narratore- protagonista, una divertente collezione di reperti del contemporaneo: esultanze calcistiche, telefonini, degrado ecologico e sociale, internet, il concetto di “non luogo” come tentativo di colto riscatto della più mesta categoria dei “posti di merda”, l’arrivo degli investitori cinesi. Ma poi tratta questi segni come farebbe non un semiologo ma un aruspice. Il monologare e commentare continuo della sua voce narrante interroga i presagi di un’imminenza, una qualsiasi: è il cinghiale, ora morto, che ha causato un incidente stradale e che riappare in sogno, è un calciatore che rifiuta di esultare, è una circostanza che obbliga a scuotersi dall’inerzia e a scoprirsi manualmente efficienti.
Se Giulio Maria chiedesse alla sua professoressa l’etimo della parola “futuro” scoprirebbe che a differenza del “passato” (che ha a che fare con i “passi”), “futuro” non rimanda a nulla. Deriva dal participio futuro latino del verbo “essere”: è una parola-parola, una pura categoria grammaticale. È improbabile che ciò possa valere a consolarlo, ma potrebbe far venire a lui, che dubbi ne ha su tutto, un dubbio anche sulla lingua. In fondo il condizionale che dà titolo al libro, Ognuno potrebbe, è rivolto al presente: ed ecco che si rivela una potenzialità di cui l’età degli eterni ragazzi non è ancora svuotata, almeno non del tutto. “Ognuno potrebbe fare meglio”. “Ognuno potrebbe salvare il posto in cui vive”: superare il proprio “frattempo” e vedere così il tempo, quello maggiore, ricominciare a scorrere.