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 2015  ottobre 07 Mercoledì calendario

Scandalo della Popolare di Vicenza, paura tra gli azionisti per l’ingresso in Borsa: nella città veneta sono uno ogni 25 abitanti, e rischiano di veder crollare il valore delle loro azioni fino a un sesto del loro prezzo originario. Tra smania di potere, truffe e veleni, la triste parabola della «banca degli imbriaghi spolpi»

«La banca degli imbriaghi spolpi». Cioè degli ubriachi fradici. Nello sfogo di un lettore sul Giornale di Vicenza contro i rei dello scandalo della Banca Popolare c’è del vero. Perché quella che per un secolo e mezzo è stata il salvadanaio della provincia più industriale d’Italia sta sprofondando per una sbornia di ambizione. Sbornia che rischia di finire, come tutte le sbornie, nel crollo sul pavimento.
L’ultima lacrima dello sgocciolio di cattive notizie che avvelenano da mesi le certezze dei berici, che «prima credevano nella Madonna di Monte Berico, poi nella Popolare», è scivolata giù ieri mattina dalle pagine di quello che intorno alla Basilica Palladiana ha il peso del Wall Street Journal nel distretto finanziario di New York. Cioè il Giornale di Vicenza. Dove Marino Smiderle ha spiegato chiaro e tondo ai propri lettori che non devono farsi illusioni: quando la «Popolare» andrà in borsa, la prossima primavera, ogni azione potrebbe valere poco più che un sesto di quanto valeva (meglio: di quanto la spacciavano) pochi mesi fa.
Altro che il ritorno all’utile promesso per il 2016 nonostante «la perdita di esercizio, dettata dai criteri prudenziali introdotti dalla Bce, di 823 milioni»! Dopo il deprezzamento iniziale delle azioni da 62,5 a 48 euro (-23%) ad aprile, quando «il patrimonio tangibile iscritto a bilancio era pari a 3,35 miliardi di euro», infatti, «il patrimonio netto tangibile è sceso attorno ai 2 miliardi». Risultato: un valore delle azioni attuali «compreso tra 12,85 e 15 euro». Ma che potrebbe perfino, secondo i più pessimisti, essere più basso. Fino, appunto, a una decina di euro.
Un trauma, per i vicentini. Per i dipendenti, che nella «loro» banca avevano investito non solo le energie ma anche i risparmi. Un trauma per gli imprenditori convinti che la «Popolare», nella scia degli anni magici del Nord-est, fosse davvero quel miracolo che dicevano i vertici, capace nel pieno della crisi e dei tracolli bancari di non perdere punti (grazie alla scelta di stare lontani dalle quotazioni in borsa) ma anzi di crescere, crescere, crescere. Un trauma per le famiglie che avevano depositato agli sportelli «amici» anche le liquidazioni, lasciandosi convincere magari dal parente cassiere, racconta l’avvocato Claudio Mondin, «di quanto fosse sicuro comprare azioni di quella banca che magicamente superava ogni difficoltà, col risultato che qualche bidonato si pone ora il problema: se faccio denuncia, il mio parente alla cassa avrà dei guai?».
Sono 35 mila gli azionisti vicentini della banca. Uno ogni venticinque abitanti scarsi. Una ogni dieci famiglie. Per capirci: è come se a livello nazionale si dibattessero tra i flutti d’un mare in tempesta, con l’incubo di annegare, quasi due milioni e mezzo di italiani. Mettetevi al posto loro: per anni si sono sentiti la locomotiva del Veneto, a sua volta locomotiva dell’Italia. Statistiche pazzesche. L’associazione industriali provinciale più forte d’Italia dopo Milano e Torino. Un’impresa ogni dodici abitanti. Un tasso di disoccupazione oggi al 6,7%: la metà della media nazionale. Un fatturato industriale di 38 miliardi, un export di 16. La proprietà allargata a 117.000 soci di una banca via via dilagata in Friuli, Toscana, Lazio, Lombardia, Sicilia… E di colpo: flop!
Perfino Luca Zaia, che dopo la decisione di Renzi di adeguarsi ai diktat europei e obbligare le «popolari» a trasformarsi in s.p.a. era saltato su («È una vergogna: si sta chiudendo di fatto tutto quello che è la banca del territorio») sembra più prudente. Resta dell’opinione che sia stata «una riforma violenta, senza i tempi necessari...». Ma «l’idea che ci siano quotazioni che si formano fuori da un mercato libero», ha detto al Gazzettino, «è irrituale e pericolosa».
Sul banco degli imputati, anche se scarica tutto sui suoi collaboratori più prossimi, c’è Gianni Zonin, che partito dal vino era riuscito a farsi largo tra i banchieri di punta. Da vent’anni, come ha sibilato al giornale on-line Lettera 43 Gian Carlo Ferretto, uno dei suoi nemici dichiarati, ha avuto un «potere illimitato». Tanto che qualcuno ammiccava sulla «eredità delle zeta». Da Carlo Zinato, il vescovo-padrone che entrò a Vicenza l’8 settembre 1943 («da un Duce nero a un duce rosso porpora», si davano di gomito i laici) e decideva ogni nomina venendo irriso dalla Camilla Cederna che lo chiamava «la Wandissima», giù giù fino a Zonin. Il «dominus absolutus» (copyright di Alessio Mannino, di Vvox.it) alla cui banca ha affidato i risparmi come azionista, ahi ahi, la stessa Curia.
Era una manifestazione di status sociale, fino a pochi mesi fa, l’invito alla festa di compleanno del banchiere-vignaiuolo nella sua villa di Gambellara. Nessuno osava dirgli di no. Al punto che, ricorda Vittorio Malagutti su l’Espresso, accettarono via via di lavorare per lui anche «Antonio Fojadelli, il pm che per primo indagò sul caso chiedendo l’archiviazione» e poi «è stato ingaggiato come amministratore in una società controllata dalla Popolare» o Giuseppe Ferrante, il capo della Tributaria a Vicenza che dopo aver partecipato a una indagine lasciò l’incarico per «diventare dirigente della banca».
Pochi mesi e, dopo i rilievi della Bce su quelle «auto-valutazioni» domestiche del valore delle azioni e gli aumenti arrangiati di capitale («le strategie e i meccanismi adottati dall’istituto e i suoi fondi non garantiscono una copertura completa dei rischi») e il moltiplicarsi di denunce sulle tecniche usate dalla banca per ammucchiare nuovi azionisti (compresi i soldi dati loro per comperare azioni «popolari» o l’aut-aut a chi chiedeva un mutuo: ok, ma solo se diventi azionista), Zonin pare esser diventato un appestato: «Zeta, l’orgia del potere».
E con lui rischiano di essere travolti non solo i suoi co-indagati per «aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza» (come l’ex direttore generale Samuele Sorato o i consiglieri Giovanna Dossena e Giuseppe Zigliotto, il capo di Confindustria che due settimane fa invitava l’Italia a «prender esempio da Vicenza che è un anno avanti») ma altri ancora. Messi nel mirino, con una serie di denunce per «associazione per delinquere finalizzata ai reati di aggiotaggio», da famiglie e piccoli imprenditori. C’è chi racconta, come in un esposto del M5S, avventure incredibili: per aver dei fidi sarebbero stati costretti a comprare azioni a 62,50 euro l’una, indebitandosi con la banca stessa. Risultato: pagano un debito per azioni oggi invendibili che rischiano poi di valere un sesto. Può rialzarsi, dopo questa ciucca, «la banca degli imbriaghi spolpi»? Sì, giurano i nuovi dirigenti della «Popolare», sostanzialmente commissariata dalla Bce. Una volta salvata, sia pure a caro prezzo, però, è difficile che resti «vicentina». Quanto a recuperare la fiducia dei vicentini che la vedevano come «il» salvadanaio ci vorrà del tempo... Molto tempo.