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 2015  ottobre 07 Mercoledì calendario

Sigonella, la crisi che cambiò la politica italiana. Filippo Ceccarelli ripercorre la complicatissima vicenda che vide Craxi sfidare a brutto muso Reagan ma forse, come scrisse Intini, i socialisti non compresero «la pericolosità dei fili toccati»

Forse trent’anni bastano a capire un po’ meglio, per cui non è retorica dire che dopo Sigonella la politica italiana non fu più la stessa. Per una volta senza le tradizionali ambiguità, vennero al pettine i nodi delle relazioni in Medio oriente e apparve chiaro che una coraggiosa linea di indipendenza nazionale non solo era possibile, ma anche opportuna, seppure non priva di rischi.
Su quella complicatissima vicenda il ministro della Difesa Spadolini aprì la crisi di governo; però si rimescolarono anche gli equilibri fra i partiti lasciando intravedere una specie di unità nazionale che sia pure per poco sembrò allentare i vincoli della guerra fredda.
Su entrambi i fronti, interno e internazionale, Bettino Craxi stravinse la partita: mortificò quindi l’atlantismo dei repubblicani, mise la Dc dinanzi a un bivio, si prese gli applausi del Pci, ma soprattutto dimostrò che essere alleati non significava essere servi, ma regolarsi in politica estera con un’aggiunta di dignità. E tuttavia, a distanza ormai di un trentennio, per dirla brutale: gliela giurarono gli americani a lui e al ministro degli Esteri Giulio Andreotti? Questo è ancora difficile a dirsi. E per quanto una potenza imperiale abbia di solito reazioni più complesse di quelle che manifestano gli individui, il fatto che tutti e due gli statisti ebbero poi nello stesso periodo la loro carriera stroncata raddoppia in qualche modo i sospetti. Ora, sia a Washington che a Roma, Bettino era infatti l’uomo degli euromissili, «più americano degli americani» si disse; ma era vero fino a un certo punto – e non solo perché aveva enormi ambizioni e un carattere per niente arrendevole. Per cui attaccava spesso e volentieri l’Urss, ma non condivideva la formula reaganiana dell’«impero del male». Soprattutto – come del resto Andreotti, un altro a lungo considerato un super-campione atlantico – riteneva che l’Italia avesse il sacrosanto diritto di considerare il ruolo dei palestinesi, dell’Olp e del suo amico Yasser Arafat, che spesso andava a trovare a Tunisi e che proprio nell’agosto di quel 1985 ospitò a cena nella sua casa di Hammamet insieme con quell’Abu Abbas che nemmeno due mesi dopo il colonnello North cercò di catturare, e 25 guerriglieri di scorta armati fino ai denti che si appostarono in giardino (scolandosi tutte le Coca cole della dispensa). Questo genere di rapporti senz’altro aiutarono Craxi a risolvere con rapidità e determinazione la crisi dell’Achille Lauro. Così come trattare con Reagan da pari a pari, anzi a brutto muso, gli assegnò a una statura che per un paese trattato sempre un po’ come una repubblica delle banane non aveva molti precedenti. Ma da quel momento si ritrovò anche in casa qualche orecchio indiscreto.
Con gli americani «dear Bettino» chiuse allora l’incidente pronunciando una battuta – «Amici come prima» – che tuttavia l’anno seguente non gli impedì di salvare la vita a Gheddafi avvisandolo di nascosto dell’imminente bombardamento della flotta Usa sul suo quartier generale a Tripoli.
Anche tale mossa non dovette aiutare le relazioni con Washington. In politica estera, ha scritto Sergio Romano, si possono dare i calci, ma si rischia di rimanere con la gamba alzata per un tempo più lungo di quel che si crede. Così, dopo tanti anni, Ugo Intini scrisse che i socialisti non compresero «la pericolosità dei fili toccati». I presidenti infatti cambiano, mentre gli apparati restano, con le loro necessità, con le loro diffidenze.