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 2015  ottobre 07 Mercoledì calendario

L’Italia è già in guerra con lo Stato Islamico e non saranno certo quattro Tornado a fare la differenza. Roberto Toscano: «C’è piuttosto da chiedersi come mai finora un’alleanza potentissima sulla carta non sia riuscita a mettere in difficoltà lo Stato Islamico»

Ma allora, è vero che l’Italia si accinge a unirsi con i propri aerei ai bombardamenti sullo Stato Islamico? Leggere la firma di un giornalista come Franco Venturini sotto l’articolo del Corriere ci fa subito escludere che si tratti di una bufala o, peggio ancora, di una pseudo-notizia che mira a produrre surrettiziamente risultati politici.
Siamo piuttosto nel campo dello scoop ma, come spesso succede nel nostro Paese, si scatenano eccitate reazioni polemiche rispetto a fatti che in realtà sono meno clamorosi di quanto non si pensi.
Il fatto è che l’Italia è già in guerra con lo Stato Islamico, o Daesh, non solo in quanto membro della coalizione che lo combatte, ma concretamente in quanto quattro Tornado e vari droni italiani partecipano alle operazioni aeree sopra le zone dell’Iraq sotto il controllo dei jihadisti – senza contare i nostri militari impegnati in programmi di addestramento. Certo, i Tornado si limitano ad effettuare missioni di ricognizione, e i nostri droni sono disarmati, ma le diverse funzioni nell’ambito di un’alleanza militare non cambiano il fatto fondamentale della partecipazione.
Insomma, se dovevamo decidere se fare o non fare la guerra allo Stato Islamico, la discussione doveva avvenire molto prima.
L’Italia si è acquistata un meritato prestigio internazionale per le attività di mantenimento della pace svolte dai suoi militari in varie zone critiche. Oggi in Iraq, tuttavia, non c’è bisogno di questa nostra «specialità». Oggi in Iraq non c’è nessuna pace da mantenere, ma un nemico da battere militarmente. Non si può nemmeno, oggi, spostare il discorso sulle alternative diplomatiche alla guerra. Lo si comincia a fare (in ritardo) per quanto riguarda la Siria, ma non sembra che lo Stato Islamico possa essere un interlocutore. Magari un giorno lo diventerà, ma soltanto se prima si riuscirà a fermare con la forza militare una spinta che finora è risultata difficilmente contenibile, e ancor meno reversibile.
Resta però un interrogativo molto serio. Ma davvero c’è bisogno dell’aggiunta di quattro Tornado italiani per rendere più efficaci le operazioni aeree contro lo Stato Islamico? Si fa molta fatica a dare ragione a Vladimir Putin, provocatore e avventurista, ma come si fa a confutare la sua battuta secondo cui la coalizione anti-Daesh finora «ha bombardato il deserto»? Centinaia di sortite sulla carta, ma secondo gli esperti più qualificati – pensiamo al nostro Generale Camporini – la dubbia efficacia di queste sortite solleva molti interrogativi. Non crediamo che gli americani abbiano carenza di caccia-bombardieri. Ma allora che senso può avere l’«ipotesi» di una partecipazione dei nostri quattro aerei ai bombardamenti – per citare la «smentita decaffeinata» del ministero della Difesa all’articolo di Venturini?
È vero che gli americani ci tengono molto – e a ragione – al «burden sharing» (ed è difficile pensare che il Segretario alla Difesa Ashton Carter non ne stia parlando con i suoi interlocutori italiani), ma perché perseguire un mero simbolismo che rischia di sottoporre il governo italiano a problemi politici interni?
Qui il discorso si sposta dall’Iraq a Roma, e a un dilemma tutt’altro che nuovo per i nostri governi. Da un lato risulta difficile non tenere conto di un sentimento molto diffuso (e non solo a sinistra) contrario alla guerra e che tende a privilegiare il dialogo, la diplomazia, il compromesso. Dall’altro i nostri governi – tutti – sono a disagio se si tratta di dovere dire di no agli alleati americani.
La situazione ideale, per noi, è quando la diplomazia funziona. Grande sollievo di Renzi per l’accordo raggiunto sul nucleare iraniano, così come era felice Berlusconi quando poteva avvolgere Bush e Putin in un ridente abbraccio.
Purtroppo questo non è sempre possibile. Possiamo, anzi dobbiamo, continuare a preferire dialogo e diplomazia. Non dobbiamo certo vergognarci di non lasciarci andare a derive militariste che di solito comportano terribili costi e catastrofici fallimenti.
Ma che fare quando ci troviamo di fronte a una sfida come quella dello Stato Islamico? Certo, la sua stessa esistenza si può ricondurre a clamorosi errori politici, ed è sempre la politica la chiave che dovrà permettere di ricostruire un minimo di equilibrio in zone devastate dalla combinazione di radicalismo jihadista e fallimento di regimi autoritari, corrotti, repressivi.
Se però i combattenti dello Stato Islamico riusciranno a travolgere i coraggiosi curdi e a portare al collasso il fragilissimo stato iracheno il momento della politica minaccia di non arrivare mai. In questo senso si spiega la nostra adesione alla coalizione e si spiegherebbe anche, per ragioni di coerenza, la nostra piena partecipazione alle operazioni.
Ma non saranno certo i nostri quattro aerei a fare la differenza. C’è piuttosto da chiedersi come mai finora un’alleanza potentissima sulla carta non sia riuscita a mettere in difficoltà lo Stato Islamico, certo non una potenza militare, e perché sia così difficile contestare la sprezzante battuta di Putin.