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 2015  ottobre 06 Martedì calendario

Ricchi e infelici: «Non voglio che i miei figli da grandi diventino parte dell’1 per cento più ricco della popolazione». Così Simon Kuper, columnist del Financial Times, ha titolato la sua rubrica. Spiega che «I genitori di oggi sono ossessionati dall’esigenza di assicurare ai figli un lavoro altamente remunerativo e per riuscirci cercano di programmarli come automi fin da bambini ma psicologi, sondaggi e buon senso indicano che non è necessariamente la strada giusta per farne degli adulti realizzati e contenti»

«Non voglio che i miei figli da grandi diventino parte dell’1 per cento più ricco della popolazione». Il titolo della rubrica settimanale di Simon Kuper, columnist del Financial Times, scatena il dibattito a Londra e mette il dito su un fenomeno di cui parla anche l’Harvard Business Review: è più importante la vita o la carriera? Il proclama del columnist non è rivolto soltanto alla sua prole, tantomeno solo ai figli di banchieri e altri privilegiati, bensì riguarda i figli di tutti. Se l’opinione dominante è che la felicità proceda di pari passo con il reddito, svariate statistiche forniscono un diverso parere: in Gran Bretagna, per esempio, i mestieri che producono la maggiore soddisfazione personale sono il sacerdote (20 mila sterline l’anno di stipendio) e l’istruttore di ginnastica (10 mila), non certo professioni di élite. «Dall’India agli Stati Uniti, passando per l’Europa, i genitori di oggi sono ossessionati dall’esigenza di assicurare ai figli un lavoro altamente remunerativo, che sia il medico, l’avvocato, il banchiere, e per riuscirci cercano di programmarli come automi fin da bambini», dice Kuper a Repubblica, «ma psicologi, sondaggi e buon senso indicano che non è necessariamente la strada giusta per farne degli adulti realizzati e contenti». Il suo è un segnale d’allarme in controtendenza rispetto alla filosofia delle “Tiger Moms”, la mamme-tigri che allevano i figli determinate a produrre persone di successo, secondo l’etichetta del best-seller di un paio d’anni fa: non sempre il denaro dà la felicità, avverte un padre “anti-tigre” che lavora tra le banche della City.
Come le è venuto in mente di scrivere di questo argomento?
«Parlando con genitori, a Londra ma pure a New York, Milano, New Delhi. Genitori di successo ma stressati e di colpo non più così sicuri di voler preparare un destino simile per i propri figli».
Non è un po’ ipocrita sostenere che banchieri e avvocati di successo sono più stressati di un operaio o di un disoccupato?
«Vari studi dicono che neanche loro sono tanto felici. Se fai una professione di successo lavori più di qualunque altro lavoratore, in un ambiente ultra competitivo, in cui sei spinto a raggiungere target sempre più alti. Ma il problema in realtà riguarda tutti: anche chi appartiene alla classe media occidentale spesso desidera che i figli facciano carriera a tutti i costi e nei paesi emergenti come Cina e India questo sentimento accomuna anche le classi medio basse».
Con quale risultato?
«Di trasformare i figli in automi. Di togliere loro estro e serenità. Di costringerli a competere per il massimo dei voti fin da piccoli e a sentirsi falliti se qualcuno li supera. E poi magari con il risultato, da adulti, di scoprirsi infelici nonostante tutti i sacrifici fatti».
Si è forse più felici in un presunto mondo arcaico e povero?
«La miseria non rende felice nessuno, ma una diversa scelta di vita forse sì. Dopo un’inchiesta a Reggio Emilia mi è parso di avere incontrato più persone soddisfatte in una città di provincia italiana che in quelle che fanno la “rat race”, la corsa dei topi, come si dice nel gergo della finanza, fra banchieri e avvocati di Londra e New York».
Sia sincero, davvero non vorrebbe che i suoi figli facessero parte dell’1 per cento?
«Vorrei che facessero quello che vogliono. Però senza avere alle spalle dei genitori che premono in modo ossessivo per avviarli a una cosiddetta carriera di successo. Si può essere felici anche senza fare carriera, seguendo le proprie inclinazioni verso mestieri che non portano soldi. Prova ne sia che in Inghilterra i cittadini più contenti sono quelli che fanno il sacerdote o il personal fitness tranier, l’istruttore personalizzato di ginnastica. E di scelte analoghe se ne possono immaginare tante altre, dall’artigiano al maestro di scuola, dall’istruttore di surf all’agricoltore».
Lei si sente parte dell’1 per cento?
«A Londra qualunque coppia di professionisti ne fa parte, che facciano i giornalisti, il medico o l’avvocato. Diciamo che in Occidente due salari lordi, marito e moglie, da 50mila sterline l’anno a testa in su, entrano nell’1 per cento. Rispetto alla popolazione mondiale, la classe media europea appartiene all’1 per cento. I ricchi veri, naturalmente, sono altri e costituiscono lo 0,1 per cento del totale».
E per i suoi figli lei è un modello di padre felice o infelice?
«Felice. Anche se forse mi divertivo di più quando scrivevo soltanto di sport, anzi di calcio. Fortunatamente, di tanto in tanto continuo a farlo».