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 2015  ottobre 05 Lunedì calendario

Non solo Siria: per la Russia di Putin minacce islamiste sempre più gravi anche dalla Cecenia. Tra gli jihadisti del neonato Emirato del Caucaso e lo Stato Islamico è già stato siglato un patto di sangue

Obbedienza al Califfo. Già oltre 200 ceceni stanno combattendo in Siria. Risolto quel problema si scateneranno contro la Russia”. In un messaggio video del maggio scorso c’è la firma del patto di sangue tra gli jihadisti del Caucaso e lo Stato islamico. L’Isis può contare su un’altra cellula impazzita, ennesimo pezzo di un puzzle strategico. Dal cuore del male, Iraq e Siria, il tumore in metastasi, libero di muoversi senza incontrare ostacoli, ha aperto le nuove filiali del male in Libia, minaccia i Paesi mediorientali e può vantare adepti pure all’interno delle Repubbliche russe. Terre ricche di valori, di risorse e di minacce, violate da conflitti interni mai sopiti e desiderio di vendetta.
Facile abbracciare il verbo della violenza percorso dall’Isis, quando l’alternativa è inchinarsi a sua maestà Vladimir Putin e, a cascata, ai fantocci messi a capo delle repubbliche dopo la strage della scuola di Beslan, nel settembre 2004. Quell’episodio ha rappresentato la miccia, per alcuni anche la scusa, per agire in deroga alla ferrea costituzione russa: i presidenti dei quattro, turbolenti, staterelli caucasici – Cecenia, Dagestan, Inguscezia e Kabardino Balkaria – da allora vengono nominati dal Cremlino. Alcuni sono inermi, altri più tenaci, vedi il presidente ceceno Ramzan Kadyrov, ma tutti tenuti al guinzaglio.
Intanto, Grozny, restando in tema di califfati, in meno di cinque anni si è trasformata in una piccola Dubai. E questo, ai successori dei ribelli delle guerre cecene che hanno tenuto sotto scacco la regione per quasi dieci anni a cavallo del Millennio, non piace.
Nasce dunque l’Emirato del Caucaso, il Walayat Qawqaz, la Provincia del caucaso, poltiglia magmatica ancora da plasmare, con troppi galli a cantare. Più un atto impulsivo, dettato dal desiderio di spazzare via il nuovo stato di cose che regna nella regione ai piedi dei monti Elbrus e Kazbeg. Una regione già complicata a causa delle turbolenze in Georgia, con gli echi della guerra-lampo con Mosca nell’agosto 2008 e le separazioni di Abkhazia e Ossezia del sud. In Nagorno-Karabakh, area contesa da Azerbaijan e Armenia, intanto, si è tornato a sparare e ad uccidere.
Già prima di nascere l’Emirato ha perso pezzi importanti. Mosca, attraverso la sua rete segreta garantita dall’Fsb (ex Kgb), è riuscita ad assestare alcuni colpi durissimi alla rivolta. Nell’aprile del 2014 il Cremlino ha dato per certa l’uccisione di Doku Umarov, vero leader della rivolta caucasica; un anno dopo al suo successore, Aliaskhab Kelekov, è toccata la stessa sorte. E non è finita qui. Con le teste che cadono come foglie al vento, l’Emirato nomina nuovi leader, a partire dal dagestano Abu Mohammad Al-Quadri. In realtà l’anima dell’Emirato sembra essere nella valle del Pankisi, una zona impenetrabile tra Georgia, Cecenia e Dagestan, difficile da espugnare come le valli scoscese del Panshir in Afghanistan.
Non era ancora un mullah, ma intanto Abu Omar Al-Shishani, “Omar il ceceno”, alias Tarjan Batirashvili, guerrigliero georgiano stava facendo parlare di sé. Fino a quando, nel giugno scorso, la polizia georgiana lo ha fermato assieme ad altri tre reclutatori dell’Isis. Era lui a controllare tutti i traffici, dalle armi alla droga in una zona di “non diritto”, ad organizzare spettacolari rapimenti, come accadde alcuni anni fa ai danni del fratello del calciatore del Milan, Kakhaber Kaladze.
Putin e il Cremlino non sono mai stati così in pieno possesso della situazione in Caucaso. Viaggiare in Cecenia, Inguscezia e Dagestan fino a tre anni fa era quasi impossibile.
Oggi con un pulmino si può arrivare da Nal’cik, capoluogo del Kabardino, fino a Makachkala, in Dagestan, senza correre il rischio di saltare in aria, essere attaccato o messo sotto accusa dagli zelanti agenti federali russi.
Putin sta vincendo, al costo di miliardi di rubli e della cancellazione totale dei diritti e della democrazia. Fermi, arresti, uccisioni. Il 6 giugno scorso è toccato a Suleiman Zainalobinov, sospettato di appartenere all’Isis, ucciso in Dagestan. Ad inizio agosto, sempre in Dagestan e Cecenia, in due operazioni separate le forze russe hanno eliminato 12 jihadisti. Tra questi i leader dei guerriglieri dagestani, Magomed Suleimanov, subito trasformato in martire dalla propaganda.
In effetti, alla rivolta, fino a prova contraria, resta la propaganda del sito Kavkaz Center, gestito da un ex signore della guerra mezzo ceceno e mezzo dagestano. In fondo è solo una questione di business.
Nel sottosuolo caucasico scorre di tutto, oro nero o sottoforma di “nuvole gassose”. Troppo strategico e pericoloso lasciare una simile miniera agli allora presunti amici di Al Qaeda. Da qui lo scatenamento di guerre e sangue che, solito cliché, hanno visto pagare un prezzo salato alla inerme popolazione civile, stretta tra la follia terroristica e la violenza della Russia.
Fino al giorno d’oggi, quando il pugno di ferro voluto da Putin non colpisce soltanto gli adepti dell’Isis. L’uccisione dell’attivista politico Boris Nemtsov (su cui non si attenuano le ombre che vorrebbero il presidente Kadyrov come mandante principale), avvenuta alcuni mesi fa, ha di nuovo accesso i riflettori sulla campagna repressiva russa che coinvolge anche i giornalisti. Il 30 maggio Vladimir Kara-Murza, giornalista anti-Putin e anti-Kadyrov, amico di Nemtsov, è stato avvelenato. Dieci giorni dopo Elena Milachina della Novaja Gazeta – lo stesso giornale di Anna Politkovskaia, assassinata a Mosca nell’ottobre del 2006 – è stata minacciata di morte: aveva osato scrivere sulle nozze tra una sposa minorenne, 17 anni, e il capo della polizia cecena, 56 anni. Eppure il vero colpo all’Isis lo hanno fatto tre ragazze cecene che, a fine agosto, si sono finte jihadiste truffando il Califfato: “Vogliamo unirci a voi, mandateci i soldi, non abbiamo i soldi per il viaggio in Siria”. I soldi sono arrivati, 3.300 euro, ma le ragazze sono fuggite col bottino.