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 2015  ottobre 05 Lunedì calendario

Lessing, Molière, Strindberg e la Traviata. È l’ultimo libro di Vittorio Sermonti

Il commento alla Divina Commedia, la traduzione dell’ Eneide, quella delle Metamorfosi : quanto ha lavorato Vittorio Sermonti per darci il piacere di leggere questi capolavori! Lo ha fatto con una profonda conoscenza linguistica, storica, filologica unita a una personale qualità della scrittura che mette il lettore a suo agio anche là dove la difficoltà del testo originale rende più arduo l’approccio.
Ha un suo modo Sermonti, amabile e spregiudicato, rigoroso soprattutto, e anche sottotraccia ironico, di accostarsi ai grandi capolavori e di commentarli libero da ogni pesantezza professorale, che a volte diventa scrittura creativa, un vero e proprio racconto autobiografico, verso il quale neppure il sommo Contini ha qualcosa da eccepire.
Eppure, senza per nulla diminuire il rigore critico, entrano in campo discretamente nel commento di Sermonti i suoi sentimenti personali e lui ci fa sobbalzare di fronte a una parola o a un verso che lo hanno particolarmente colpito.
Ora con questo recente volume intitolato Il vizio di scrivere Sermonti ci fa sapere che mentre lui sgobbava sulle sue grandi traduzioni non se ne stava con le mani in mano e il vizio di scrivere lo teneva sempre occupato. Questo suo ultimo libro raccoglie la sua opera omnia collaterale, per così dire, ma non secondaria. Anche qui in questo libro indirettamente autobiografico, ci sono due traduzioni notevoli, una di Nathan il saggio di Lessing, un’altra in versi, quella di Tartufo di Molière, che meritano per l’impegno profuso di collocarsi accanto alle altre già dette.
Ma tutto in questo libro di scritti vari e spesso occasionali o commissionati va sotto il segno dello «stile Sermonti» e perciò va letto con diletto. Perfino una scheda biografica su August Strindberg, fatta di semplici annotazioni e brevi paragrafi, porta il segno del suo stile disinvolto e nascostamente ironico, e leggendo ci si meraviglia della quantità di opere, alcune capolavori, che in breve tempo e in un susseguirsi affannoso il commediografo, il narratore, il saggista, lo studioso di scienze esoteriche, riusciva a produrre, e come mai fosse spesso senza una lira. Dove finivano i diritti d’autore? I successi di tante commedie, trionfi a Parigi, a Berlino, in tutte le grandi capitali del teatro non lo rendevano ricco? O erano le sue numerose mogli perfide e spendaccione a rovinarlo? Leggiamo e capiamo che Sermonti si sta divertendo a raccontare in brevi tratti la vita incasinata fino all’assurdo, di un grand’uomo.
Ma per capire meglio quale tipo di divertimento Sermonti distribuisce nelle pagine di questo libro basta leggere il racconto che lui ha fatto della trama della Traviata, uno scritto a lui richiesto in occasione delle celebrazioni verdiane del 2001, apparso poi insieme ad altri tredici sotto il titolo di Sempreverdi. Cosa vi può essere di più risaputo e di meno eccitante per uno scrittore che mettersi a raccontare, e per di più per commissione, la trama della Traviata ? Ebbene si legga quello che ha scritto Sermonti e si vedrà che il racconto può diventare «esilarante». Ma attenti, non solo esilarante, anche devoto, colto, rispettoso, commovente... mentre si ride. E può fornirci anche una buona lezione sull’evolversi della lingua italiana.
Sermonti non dimentica mai che «lo statuto del melodramma non è quello di mettere in musica i versicini del libretto, ma quello di attivare una metarealtà nella quale non solo tutti cantano ma sentono anche gli altri cantare, perché i personaggi non pronunciano, non pensano, non sono altro che musica».
Ma finora ho dato solo due esempi degli scritti contenuti in questo libro che ne contiene molti e dei più vari ed eterogenei, dall’intervista ai racconti brevi, dai ritratti di personaggi noti (come Marilyn o Gassman) si va a quello bellissimo, letterariamente e criticamente, di Leopardi (e altrove osserva: «Gli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, la bellezza tremenda di quel “fuggitivi” non è negoziabile con nessun sinonimo»), e ancora dalla poesia a brevi dotti excursus sulla metrica.
E qua e là trovi sparsi divertissement di vario genere di cui l’autore finge di rammaricarsi per averli inclusi, ma si sbaglia perché piacevoli da leggere e perché ci danno un’idea del tipo di umorismo al lui connaturato. Come questo motto: «La ricchezza non dà la felicità. Figurarsi la miseria», che lui trova scritto su una piastrella di ceramica mentre sta visitando la Madonna del Parto di Piero della Francesca in quel di Arezzo.