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 2015  ottobre 04 Domenica calendario

Che ci va a fare uno in Lussemburgo? A guardare le macerie da cui sorgerà una banca

Essersi prefissi, come ho fatto, di vedere almeno 100 Paesi nel corso della vita comporta qualche rischio. E non intendo quello di finire, se non ci si è ancora passati, in Iraq, piuttosto quello di andarsene per almeno due notti (questa è la regola perché la destinazione possa essere conteggiata) in Lussemburgo. È un giovane autunno, vicino e simile a questo, mi trovo in una stazione del TGV di Parigi, guardo la cartina delle tratte, controllo gli impegni e annuncio, più che altro a me stesso: «Domani parto per Lussemburgo». Le reazioni (tra me e me) sono perplesse. Le domande: «Perché?», «Hai dei soldi da depositare?», «Sicuro? Guarda che poi ti prende la malinconia». C’è una sola risposta: ho quest’album di figurine della geografia e Lussemburgo manca. Quanto alla malinconia, può venirti anche a Parigi, in un giorno di sole, la Senna luccicante, il ponte sospeso tra le due rive, tutta la tua vita davanti. Detto questo, a Lussemburgo è più probabile. Un po’ più probabile. Nei tre giorni/due notti che ci ho trascorso ha piovuto e nel modo peggiore, con brevi intervalli che ti illudevano, spingendoti ad abbandonare il caffè in cui ti eri riparato. Nel cinema annesso alla biblioteca proiettavano un film sulla persecuzione di un matematico rumeno. Intorno alla stazione, nel quartiere dove avevo preso alloggio sperando di incrociare il consueto malaffare dei quartieri intorno alla stazione, non c’erano né spacciatori, né prostitute, soltanto africani tristi e buttafuori russi disoccupati perché i night non avevano clientela da espellere. Al ristorante giapponese con il rullo continuava a passarmi davanti lo stesso piattino dal bordo arancione con due roll di tonno abbronzato e quando ho chiesto una bella storia locale mi han raccontata quella di un ergastolano italiano coinvolto in un traffico di droga e accusato di duplice omicidio: Figini Alfonso. Gli ho perfino telefonato dalla mia camera d’albergo ed è stato il momento più eccitante della spedizione. Ho perfino avuto la sensazione che potesse essere innocente, almeno riguardo agli omicidi. Lo so, il problema è che io non vado cercando castelli, palazzi, piazze (ne avrei trovati, e di belli), piatti di una cucina sorprendente in ristoranti dal design innovativo (ce ne sono), o tracce di storia (che è passata e ha segnato, perfino in questa briciola d’Europa). Cerco un particolare all’apparenza insignificante, un angolo visibile eppure trascurato che mi insegni qualcosa, che mi renda impercettibilmente diverso al ritorno da quella città. E stavo disperando quando, chiuso in camera mentre pioveva, ho riguardato ancora fuori dalla finestra e rivisto quel che avevo sempre avuto davanti: le macerie. È proprio vero che ci si abitua a tutto: i quattro muezzin che circondavano la casa dove abitavo a Beirut mi han svegliato soltanto le prime due notti e avendo vissuto a duecento metri da Ground Zero a New York non è che una montagna di calcinacci in una piccola capitale possa stupirmi più di tanto. Non ci sono stati attacchi al cuore del Granducato, che si sappia, eppure un alto edificio era stato sventrato da qualcosa di molto simile a un’esplosione. Doveva essere di almeno dieci piani, i detriti ora misuravano quanto l’albergo. Un ammasso di mattoni, cavi, resti di mobili, ferro, legno, vetro polverizzato si infradiciava sotto la pioggia e lo sguardo pigro di una ruspa ferma. Sono sceso e ho chiesto al portiere che cosa fosse successo all’edificio di fronte. La risposta mi ha colpito: «Sono state le banche». In che senso? «Tirano giù il palazzo per farci un’altra banca». A occhio Lussemburgo potrebbe aver bisogno di un altro cinema, una spiaggia artificiale, un circuito automobilistico, ma un’altra banca non sembrerebbe proprio. E comunque il punto era la frase, la scelta delle parole: «Sono state le banche». Come si direbbe: è stato l’uragano Flint o il punteruolo rosso. Chi abitava in quel palazzo? Per risposta, una scrollata di spalle: «Non lo so». Stavano di fronte, uscivano, rientravano, si affacciavano, ci lavoravano o ci dormivano: «Non lo so». Andati via, spazzati, dimenticati per far posto prima alle macerie e poi a una banca. Il punteruolo rosso agisce così: tu vedi un viale di palme sul lungomare e l’anno successivo ci sono soltanto mozziconi. Vedi la vita e poi ritrovi soltanto numeri per matematici rumeni perseguitati. Ogni tanto senti dire, anche con qualche fitta al pancreas, che «i mercati hanno bruciato trentasei miliardi in una settimana». C’erano anche i tuoi risparmi, ma quel che brucia davvero è che una gamma di possibilità, viaggi, cene, regali sia stata cancellata da una cifra più bassa scritta sull’acqua. La montagna di macerie è, se non altro, reale, ma alla fine è la realtà a fregarci, quando la trascuriamo sostituendola con qualcosa che sembra valere tanto e vale niente. Figini Alfonso fu arrestato mentre entrava in banca per depositare il frutto delle sue attività illegali. Fosse rientrato a casa non l’avrebbero mai preso.