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 2015  ottobre 04 Domenica calendario

«È meglio essere zie che madri». Parla Bianca Pitzorno, la più grande scrittrice italiana per l’infanzia che ha preferito non sposarsi mai

Possiamo immaginarci l’infanzia come un piccolo regno invisibile, al quale accedere se si ha il dono di parlare la stessa lingua. Somiglia a una vista speciale. Mi incuriosisce (e forse invidio) chi ce l’ha. Mi affascina chi ne fa uso. Come ad esempio alcuni scrittori. Penso al nostro Niccolò Ammaniti o, più in grande, a Stephen King. Essi scrivono sull’adolescenza con mirabile conoscenza di un mondo che non è più il loro. E poi ci sono coloro che scrivono per l’infanzia. Somigliano a favolosi draghi che parlano di altri draghi; di sogni che raccontano altri sogni. C’è una strana osmosi difficile da spiegare. Accade. Come per le formule magiche. Un’illusione che sopravvive all’intrusione della realtà, alle sue leggi.
«In ogni grande libro per bambini c’è incantamento del mondo. È come un’iniziazione alla quale il bambino si sottopone», dice Bianca Pitzorno la nostra più grande scrittrice di libri per bambini e adolescenti. Mi incuriosisce la sua confessione: «Da circa 15 anni ho smesso di fare libri con quello spirito. Le stelle che implodono, a volte trasmettono prima di spegnersi la propria energia a qualcos’altro. Ora racconto storie per adulti – come l’ultimo romanzo La vita sessuale dei nostri antenati».
Uno strano romanzo che va alla ricerca dell’eros perduto. E mette a confronto generazioni remote. È un tradimento?
«È un cambio di genere, di forma e, ovviamente, di contenuti. Ma non un tradimento. Segui la tua forza e il tuo istinto e guarda dove ti portano. Non ho cambiato per il semplice gusto di cambiare. A un certo punto della mia vita, mi sono resa conto che c’erano sempre meno bambini da frequentare».
Le è venuta meno la materia prima?
«Ho sempre privilegiato i tête-à-tête. Potevo parlare per ore con un bambino, scoprendo i suoi meravigliosi mondi. Ma è sempre più difficile: impazienti, distratti, disorientati. Preferiscono vivere in gruppo. Mi spaventano le urla e il conformismo. Mi dico: Bianca, attenzione, stai invecchiando».
Com’era Bianca da piccola?
«Una bambina vivace, privilegiata, curiosa. Nata in Sardegna, una terra meravigliosa, non priva di problemi».
Quali?
«Si può cominciare con povertà e arretratezza. E finire con la paura e il disorientamento. Ma non era questo a preoccuparmi. Sono condizioni che si combattono e sfide che si possono vincere. Il problema per me era non sentirmi isola».
Cioè?
«Non sentirmi una donna separata dal resto del mondo, congelata in una provetta regionale dalla quale è difficile evadere».
Nessun uomo, o in questo caso nessuna donna, è un’isola.
«“Non chiedere mai per chi suona la campana, suona per te”, mi pare concluda John Donne».
Cosa le suggerisce?
«C’è un momento della vita che parla esclusivamente a noi. È una voce che sentiamo solo noi. Ci interpella, ci chiama. È con essa che dobbiamo fare i conti».
E le è accaduto di avvertirla?
«Sì, negli anni Novanta. Agli inizi di quel decennio sentii crescere ansia e insoddisfazione. Quello che raccontavo mi pareva avesse bisogno di una linfa più privata, più personale. Che fosse una storia capace di riflettere la mia storia. Perciò, nel 1991 pubblicai Ascolta il mio cuore».
Un libro, intende dire, autobiografico?
«Presi un anno della mia vita, il 1948, e lo trasformai in romanzo. Volevo fare esattamente il contrario di ciò che de Amicis aveva realizzato con Cuore. Raccontai la storia della mia quarta elementare, senza intenzioni edificanti, senza lacrime di commozione. Mettendo al centro una maestra psicopatica. Servile con le ragazze di buona famiglia e tirannica con le più povere e disadattate».
Ha distrutto l’immagine della “maestrina dalla penna rossa”.
«De Amicis puntò alle virtù civili dell’Italia unita da poco. Poteva farlo. Ma un secolo dopo sarebbe stato ridicolo esaltarne il comportamento. C’è un episodio che mi ha perseguitato per lungo tempo. Una compagna di classe portò un mazzo di tulipani alla maestra. E lei – che conosceva la sua umile estrazione sociale – la sottopose a un terzo grado. Dove hai preso quei fiori? Li hai rubati? Alla fine la bambina scoppiò a piangere e confessò di averli trovati in mezzo a un mucchio di spazzatura. La maestra le diede un ceffone e la insultò. Pensai che quei fiori sgualciti erano bellissimi».
Come finì la storia?
«A metà anno la bambina abbandonò la scuola. Nessuno la protesse. Si perse per colpa di quella maestra vigliacca. E non l’ho più rivista».
Le ha pesato quell’ingiustizia così palese?
«Mi pesò al punto che mi sfogai con mio padre. Lui non comprese l’enormità della cosa. Si limitò a dire: è brava a insegnare? Ammisi di sì. E allora sopporta, concluse».
Molto pragmatico.
«Era un medico, abituato a vedere le cose senza eccessivi tormenti. Veniva da una famiglia di medici. Suo nonno alla fine dell’800 aveva inventato un processo per la conservazione a secco del cervello umano. Ogni tanto in famiglia tornava la storia del bisnonno scienziato e la si accostava a quella di un’altra figura stravagante: Efisio Marini, detto il pietrificatore».
Chi era?
«Un signore nato a Cagliari. Per un certo periodo visse a Sassari. Imbalsamatore. Trovò il modo di pietrificare il sangue. Peccato che quest’uomo, di un certo genio, morì in povertà, portandosi il segreto nella tomba. A me piccina sembrava che quei discorsi in famiglia sfidassero l’eternità. C’era come qualcosa di magico. E di avventuroso. Che ben si intonava al fatto che tutti in casa leggevano Salgari. Si parlava a volte il salgarese: le battute più celebri, le storie più pericolose ed entusiasmanti riempirono la mia testa. Insieme ad alcune terzine dell’ Inferno di Dante che una vecchia nonna mi imbottì a memoria».
Una bambina precoce.
«A dieci anni, grazie a uno zio, insegnante di latino e greco, scoprii L’Iliade. Mi innamorai di Achille. Della sua forza e della sua ira. Lo dissi alla maestra. La quale replicò: vedrai piccina, crescendo preferirai Ettore. Tutte le donne che si sposano preferiscono Ettore ad Achille, disse con una voce falsa e mielata».
E fu così?
«Non mi sono mai sposata».
Per scelta?
«Amo stare da sola. È l’unico modo che conosco per apprezzare al meglio la compagnia dell’altro o degli altri».
Di solito una donna che non si sposa conserva un rapporto molto forte col proprio padre. Il suo come fu?
«Lo ricordo giocoso. A volte un po’ infantile ma capace di coinvolgermi con gli scherzi e l’affetto. Fu un rapporto buono. Non morboso, almeno da parte mia».
Intende dire che lui lo era?
«Quando divenni abbastanza grande cominciai a desiderare la mia autonomia. Volevo poter parlare liberamente con mia sorella. Uscire la sera. Frequentare gli amici. Papà cominciò a incupirsi. Divenne geloso. Non accettava l’idea che avessimo una vita nostra. Si trasformò in un tiranno pur non avendone l’animo».
Cosa accadde?
«Litigi, incomprensioni, rabbia. Avevo cominciato a dipingere. Ero brava. Pensai, finito il liceo, di iscrivermi all’Accademia. Me lo impedì. Strepitò con tutte le sue forze. Mai una Pitzorno in quel covo di perdizione! Sentenziò. Alla fine cedetti e mi iscrissi a Lettere antiche. Se ho fatto bene o male? Non lo so. Per un po’ l’ho odiato. Poi per il sessantesimo compleanno gli regalai un cavalletto, dei pennelli e una tavolozza di colori. Fu sorpreso. Gli dissi: fammi vedere cosa sai fare. E cominciò a dipingere. Si appassionò. Un vero pittore naïf. Fu questo che ci fece riconciliare».
Quando ha scoperto la vocazione di scrittrice per bambini?
«Un giorno Raffaele Crovi, col quale lavoravo, mi chiese un romanzo per ragazzi di un centinaio di pagine. C’erano tempi strettissimi di consegna. In poco più di un mese scrissi un romanzetto che parodiava i grandi naufragi: Sette Robinson su un’isola matta si intitolava. Piacque e dal quel momento sentii di aver trovato la mia vera strada».
Cosa abbandonava?
«Avevo vinto un concorso per insegnare, mi ero occupata di cinema, che fu un’altra mia passione. Avevo lavorato in Rai. Destinata a un’onesta carriera televisiva. Ma, a volte, tornava imperiosa la volontà dell’indipendenza: starsene soli a pensare, leggere e scrivere».
In Italia, tranne qualche rara eccezione, non è così invidiabile la condizione dello scrittore per l‘infanzia.
«È vero, ma siamo anche tra i pochi a rimpolpare i bilanci delle case editrici. Vivo bene con i miei diritti d’autore. E se non sarò diventata ricca, pazienza».
Sta pensando alla Rowling?
«Beh, lei è un’eccezione».
Come lo fu Tolkien.
«Il Signore degli Anelli e le storie di Harry Potter sono due modelli distinti. Due esempi di narrativa anche per grandi. Tolkien ha costruito una specie di religione del passato. Ci ha detto: guardate che il Medioevo non fu un’età di arretratezze e di infamie, non fu un’epoca buia. Ma affascinante. Credo nessuno – tranne forse John Ruskin – ha saputo dare a quel periodo i colori e la forza che gli ha impressi Tolkien. Quanto a Harry Potter, che dire? Ci sono tre grandi trovate: unire il magico al quotidiano, vedere in Harry una specie di Gesù (non a caso muore e risorge), basare tutta la saga sul sistema scolastico inglese».
Nel senso?
«Nel senso che quello è la vera pietra angolare dei romanzi della Rowling: la crudeltà della pedagogia. Da Kipling ad Antonia Byatt, e la Rowling non fa eccezione, c’è il motivo ossessivo della scuola. La sua durezza e il suo sadismo. Difficilmente si spiegherebbe altrimenti la vocazione inglese a essere un’isola ma al tempo stesso un impero».
Torna questa idea dell’isola non isola.
«Ci ho vissuto a lungo prima di trasferirmi a Milano».
Cosa pensa degli scrittori sardi?
«Sono molto detestata da alcuni di loro, perché non mi riconosco con la Sardegna. Con la retorica del folclore. Detto ciò, ve ne sono di buoni e di meno buoni. Non amo Salvatore Niffoi. Mi piace molto Marcello Fois. Trovo strana Michela Murgia. Non mi dà l’impressione che scrivere sia per lei una vocazione, ma direi un mestiere. Ho amato il primo romanzo di Milena Agus, Mal di pietre. Considero Sergio Atzeni il più straordinario: Bellas mariposas è per me l’equivalente del Giovane Holden. E poi, della generazione dei primi del Novecento, ho amato Giusepe Dessì e Salvatore Satta. Grandi».
E Grazia Deledda?
«Oddio, bisogna leggerla per poi dimenticarla se vuoi cominciare a scrivere davvero».
Cosa vuol dire per lei scrivere?
«Non so se sia un atto di fede che sostituisce la preghiera del mattino, o quella della sera. Ma scrivo sempre. Non ho il dramma della pagina bianca. Penso anche che la buona letteratura non c’entri niente con la cronaca. È trasfigurazione della realtà. Credo di averlo appreso da Elsa Morante. Soprattutto da Menzogna e sortilegio e da L’isola di Arturo».
Cosa le ha insegnato?
«Che se scrivi un romanzo devi appoggiarti alla realtà, ma la realtà non è quella di tutti i giorni. C’è ancora una mitologia delle cose e delle persone che lo scrittore deve saper scoprire e trasformare in epos».
È questo che intende per trasfigurazione?
«Sì. Poi non è detto che l’alchimia riesca. E allora resta solo la fatica e un po’ di stanchezza».
C’è un momento in cui ritiene che quell’oggetto che si chiama romanzo sia riuscito?
«C’è, ed è quando hai la sensazione di aver creato qualcosa che prima non esisteva».
Si creano opere e si creano figli. Ne ha?
«No».
Non ha mai pensato di averne?
«Non ho mai pensato di essere una madre o un padre. Troppo normativi. Castranti. Uno scrittore, per chi lo legge, assomiglia a uno zio o a una zia. È la figura che vuole bene al nipote. Che lo ama senza pensare di possederne l’anima. Zio è Paperino. Zio è Topolino. I romanzi di Jules Verne sono pieni di amabili zii e zie. E poi, lo scrittore per l’infanzia non è necessariamente un perbenista».
A chi pensa?
«Ci sono numerosi esempi. Lewis Carroll era un pazzo controllato; Carlo Collodi un puttaniere che non andava a letto senza la benedizione della mamma; Edmondo de Amicis si suicidò; Robert Louis Stevenson non aveva figli e scrisse L’Isola del tesoro per tutti i figli del mondo».
La chiameranno zia Bianca.
«Non mi dispiacerebbe. Le zie non invecchiano mai».