Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  ottobre 04 Domenica calendario

Problemi del mondo (e specialmente dell’Europa) con la Cina che importa meno e punta tutto sulla domanda interna

La Cina ha avuto una crescita impetuosa: in pochi decenni ha colmato un divario di due secoli di rivoluzione industriale: trasporti, infrastrutture, comunicazioni, grandi urbanizzazioni, ma anche la capacità per produrre quanto desiderato dal consumatore cinese, dalle auto ai telefonini. Lo ha fatto grazie a un’enorme serbatoio di forza lavoro, e alla compressione dei consumi interni, per avere il risparmio necessario a finanziare gli investimenti, non volendo utilizzare i capitali stranieri (la lezione della crisi del ’98). La Cina ha così mantenuto un avanzo delle partite correnti con l’estero, cioè un surplus di risparmio. Avendo ora accumulato capitale e capacità produttiva sufficienti, può e deve spostare le risorse interne ai consumi: la crescita del Pil rallenterà, ma non è un problema per la Cina; anzi, i suoi cittadini beneficeranno di un tenore di vita crescente. Il Paese ha un sistema bancario debole, un mercato dei capitali rudimentale, corruzione e una bolla immobiliare: problemi seri che però non pregiudicheranno la dinamica dei consumi interni. Il vero problema è dei tanti paesi che hanno puntato sull’export nell’illusione che il miracolo cinese fosse eterno: non solo i produttori di materie prime (come Australia o molti paesi del Sud America), ma anche le tante nazioni asiatiche che hanno sacrificato i consumi alle esportazioni, ripercorrendo il modello (sbagliato) giapponese degli anni ’80: Corea del Sud, Taiwan, Malesia, Singapore. Perché se la Cina ha creato i presupposti per la riconversione nel tempo da investimenti ed export ai consumi interni, gli altri sono impreparati, non sapendo come trasformare la loro industria o ravvivare i consumi interni: ne sono prova per esempio i provvedimenti eccezionali quanto inefficaci del Governo Abe in Giappone o la crisi sociale in Brasile. Gli Usa (e gli inglesi) hanno capito il problema e reagito subito con forza: aumentando la spesa pubblica per compensare il calo dei consumi, lasciando che i deficit raggiungessero livelli record (12,8% nel 2009); usando la banca centrale e le Agenzie governative per comprare i mutui dei cittadini evitando che il crollo del mattone li travolgesse; e azzerando i tassi. Contrariamente al resto del mondo, hanno poi importato il risparmio estero per evitare di comprimere i risparmi interni e finanziare la spesa pubblica, sfruttando proprio il savings glut mondiale: negli ultimi 12 mesi, il deficit di Usa e UK (580 miliardi di dollari) ha assorbito quasi per intero l’avanzo di tutta l’Asia, Cina e Giappone compresi. L’Asia ha così risparmiato per finanziare i consumatori americani. In questo modo Usa e Uk sono riusciti ad attenuare l’impatto del savings glut sulle loro economie. Non così l’Eurozona a guida tedesca che invece sembra abbia preso l’Asia per modello (compressione dei consumi interni e taglio della spesa pubblica per puntare sull’export): sbagliando e aggravando in questo modo il savings glut. Solo la Bce si è mossa, ma con ritardo rispetto alla Fed, e ancora troppa cautela. I dati sono impietosi: nell’ultimo anno l’Eurozona ha accumulato 320 miliardi di avanzo esterno (l’eccesso di risparmio esportato), quasi quanto Giappone e Cina messe assieme (280 la sola Germania). Da prima della crisi, l’Eurozona a 12 è cresciuta cumulativamente di appena lo 0,5%, ma il contributo alla crescita della domanda esterna è stata nel periodo di 2,8%: con la sola domanda interna l’Eurozona sarebbe dunque ancora 2,3% al di sotto del Pil di 7 anni fa! Il problema non è la Cina ma l’Eurozona: dovrebbe invertire la rotta con tagli coordinati delle imposte per spingere i consumi interni, e finanziandoli importando l’eccesso di risparmio nel mondo tramite un deficit esterno. Come gli Usa. Il caso Volkswagen dovrebbe convincere i tedeschi che sarebbe anche nel loro interesse: l’azienda aveva puntato tutto sull’export facendo la maggior parte degli utili in Cina e barando sulle emissioni per penetrare il mercato americano. Rallentamento in Cina e scandalo Usa hanno messo in crisi l’azienda. La Volkswagen è diventato così un po’ il simbolo di quello che non va nell’Eurozona. Speriamo lo si capisca in tempo per evitare un futuro triste quanto quello che aspetta l’azienda tedesca.