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 2015  ottobre 04 Domenica calendario

Gli americani bombardano l’ospedale di Medici senza Frontiere in Afghanistan. È la battaglia intorno alla città di Kunduz, assediata dai talebani

I caccia Usa colpiscono l’ospedale di Medici Senza Frontiere (Msf) nella città di Kunduz assediata dai talebani. Ieri sera la responsabilità americana appariva praticamente certa. Il portavoce Usa a Kabul, Brian Tribus, ha ammesso che i bombardamenti «potrebbero aver causato danni collaterali a una struttura medica di Kunduz».
Certo è che si è trattato di un bombardamento devastante e ripetuto per quasi mezz’ora dopo le due di notte, che ha ridotto in briciole parte della struttura e causato un grave incendio mentre i medici operavano i pazienti e davano soccorso alle vittime dei combattimenti iniziati lunedì. Il bilancio di sangue è grave: almeno 19 morti (fonti locali parlano già di «ben oltre venti»), di cui 12 tra medici e paramedici dell’organizzazione umanitaria. I feriti sono una quarantina, tra loro almeno 19 dipendenti di Msf. Pare però che un’altra trentina di persone tra le circa 180 presenti nell’ospedale manchi all’appello. «È stata distrutta la struttura medica più importante della zona che ancora funzionava. E ciò nonostante noi avessimo notificato l’attività dell’ospedale e la sua posizione Gps sia ai comandi Nato, che ai militari afghani e ai talebani», sostengono i responsabili di Msf puntando direttamente il dito contro le forze americane. «Tutto lascia credere che il bombardamento sia stato condotto dalla Coalizione Internazionale», aggiungono in un comunicato da Kabul.
Torna così per gli Stati Uniti e i loro alleati nella coalizione Nato-Isaf uno dei problemi più ricorrenti dai mesi seguenti l’invasione dell’Afghanistan nell’autunno 2001 per scalzare Al Qaeda e gli alleati talebani dell’organizzazione terroristica: quello delle «vittime collaterali». Come operare con le nuove armi sofisticate contro una guerriglia che, come tutte le guerriglie, si muove tra i civili? Già nel luglio 2002 il bombardamento per errore di un corteo nuziale (44 morti) a sud di Jalalabad causò ondate di forte risentimento tra la popolazione pashtun. Il dilemma si è fatto via via più urgente con il ritorno talebano, prima nelle zone rurali, quindi nelle città. Tanto da scatenare la crisi aperta tra Washington e l’ex presidente Hamid Karzai. E ciò nonostante circa due terzi delle vittime civili in Afghanistan (in media poco più di 2.000 morti annuali dal 2009) sia provocata dagli attacchi talebani.
Ieri l’amministrazione del nuovo presidente Ashraf Ghani, noto per i suoi sentimenti molto più filoamericani di Karzai, ha rapidamente puntato il dito contro i talebani. Il suo ministero della Difesa ha infatti accusato i talebani di essere entrati in forze nell’ospedale. E il portavoce del ministero degli Interni, Sediq Seddiqi, ha dichiarato che «tra i 10 e 15 terroristi erano nascosti nell’edificio al momento del bombardamento». E ha aggiunto: «Tutti sono stati uccisi, ma sfortunatamente anche i dottori». Molto più dura la reazione del commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad al Hussein. «È stato un incidente tragico, inescusabile, forse anche criminale. Se fosse stabilito dall’inchiesta che è stato un attacco deliberato contro l’ospedale, potrebbe essere un crimine di guerra». Il Segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, dopo aver ricordato che negli ultimi giorni Kunduz è stata al centro di intensi combattimenti e nelle vicinanze dell’ospedale sono posizionati i talebani, ha garantito che l’inchiesta è già avviata e offerto le condoglianze alle vittime. Zabbihullah Mujahidi, noto portavoce talebano, ha per contro negato vi fossero guerriglieri nell’ospedale.
Conseguenza immediata è comunque il rallentamento dell’offensiva anti-talebana. Lunedì scorso questi erano riusciti a occupare Kunduz, allargando il loro controllo sul nord del Paese. Da allora l’esercito afghano ha chiesto l’aiuto Usa per riprendere il territorio perduto.
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Le prime notizie hanno indicato il colpevole in un caccia apparso nella notte in sostegno alle truppe locali impegnate nella riconquista dell’area. Il Pentagono ha parlato, genericamente, di un incursione alle 2.15 «contro una minaccia». I testimoni hanno scandito diversamente le fasi. Alle 2.08 l’inizio dei colpi, devastanti. Gli ultimi alle 3.15.
Oltre un’ora di esplosioni nonostante le chiamate disperate di Medici Senza Frontiere al comando alleato. A condurre l’operazione — ipotizzano fonti Usa citate da Cnn e Washington Post — una cannoniera volante Ac-130, la Spectre. Una macchina da guerra letale, dotata di un cannone da 105 e altri «pezzi» minori, con sensori e telecamere. Vola in cerchio e «satura» l’obiettivo, di solito un concentramento di uomini e mezzi.
Dunque non un velivolo — sempre se è vera la teoria dell’Ac-130 — che sfila veloce e sgancia una bomba. Non un ordigno che sbaglia di qualche metro un target coinvolgendo una casa, un villaggio. Anche i tempi, come ha precisato il personale di Msf, non lasciano dubbi: si è trattato di una missione prolungata, con ripetuti passaggi. È quello che fa di solito la Spectre che resta nel settore fintanto che «ce n’è bisogno».
Un ufficiale afghano ha aggiunto una spiegazione che rafforza la tesi di un intervento andato oltre il limite. «C’erano 10-15 militanti nascosti nel centro ospedaliero, sparavano dal complesso». Nemici contro i quali hanno agito anche degli elicotteri delle forze locali (Guido Olimpio, Corriere della Sera).
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Il presidente Obama ha espresso la volontà di completare il ritiro entro la fine del suo mandato, cioé nel dicembre del 2016, ma il tragico errore commesso con l’ospedale di Medici Senza Frontiere dimostra perché questo obiettivo potrebbe diventare impossibile. Gli aerei americani, infatti, stavano bombardando per aiutare le forze armate afghane a riprendere Kunduz, la città più grande mai riconquistata finora dai talebani. La causa dell’incidente, dunque, prova quanto sia reale il rischio di ripetere l’errore commesso in Iraq, dove il ritiro affrettato delle forze Usa ha consentito all’Isis di riempire lo spazio lasciato vuoto dal governo sciita di Baghdad. Nello stesso tempo, però, l’incidente aumenterà le pressioni a favore del disimpegno americano, complicando anche le relazioni col nuovo presidente Ghani, che si era nuovamente schierato con Washington dopo i tentennamenti finali del suo predecessore Karzai, e aveva chiesto e ottenuto di ritardare il ritiro della coalizione internazionale guidata dagli Usa.
Il programma in bilico
Secondo il calendario previsto dalla Casa Bianca, le truppe americane dovevano scendere dai 32.000 uomini del 2014 ai 9.800 di oggi, riducendosi ancora della metà entro la fine del 2015. Il numero poi si doveva azzerare con la conclusione del mandato presidenziale. A marzo, proprio su richiesta di Ghani, Obama aveva rallentato il ritiro, e anche l’Italia aveva risposto in maniera positiva continuando il proprio impegno nella zona di Herat (Paolo Mastrolilli, La Stampa).