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 2015  ottobre 03 Sabato calendario

Tra due mesi arriva la app che ci permetterà di «dare i voti alle persone» ovvero di dire quello che pensiamo di chiunque. Lavoro immane per gli avvocati

L’inferno dei viventi, se ce n’è uno, è forse quello in cui chiunque possa giudicare il prossimo, non solo nell’universo finito della sua scatola cranica, ma in quello sterminato di Internet. Ad avvicinarci a questo inferno potrebbe essere un’app, «Peeple», che permetterà di fare quel che pensavamo di non poterci più permettere una volta passata l’adolescenza: dare voti (da una a 5 stelle) ad altri esseri umani. Non è ancora disponibile (lo sarà, forse, entro due mesi), ma è già stata valutata (7,6 milio-ni di dollari) e – scrive la Bbc – «ha già scatenato un putiferio»: molti l’hanno definita «terrificante». Come funzionerà? Semplice: se si conosce il numero di telefono di una persona, potrà inserire il suo nome nell’app; e altri – se iscritti a Facebook, e maggiorenni – potranno darle valutazioni e scrivere giudizi: professionali, personali, affettivi, estetici. Qualunque giudizio. Come a una camera d’albergo, a un ristorante, a un libro. Certo, le ideatrici dell’app (Julia Cordray e Nicole McCullough) hanno pensato a dei «freni»: i commenti positivi saranno subito visibili, quelli negativi rimarranno fermi 48 ore, lasciando all’autore la possibilità di ripensarci. Poco conta, e per capirlo basta ascoltare quanto ha detto Cordray: «Ogni volta che compriamo una macchina – o prendiamo simili decisioni, facciamo un sacco di ricerche. Perché non farlo per altri aspetti della vita?». Immaginate tutto questo: fatelo, per un secondo. Lo sentite, quel brivido lungo la schiena? Cordray – che sul suo profilo LinkedIn sostiene di essere eccezionalmente brava nel campo delle risorse umane, e non trova parole migliori per farlo che queste: «So vendere le persone» – l’ha provato nei giorni scorsi: presa di mira da attacchi (alcuni violenti) in Rete, è arrivata a chiedere in un post come impedire alle persone di lasciarle commenti così negativi. Ma, imperterrita, ha assicurato che l’app vedrà la luce. Nonostante i problemi di privacy, in grado di dare lavoro a schiere di avvocati; la mercificazione implicata dalla parificazione tra una persona e un piatto di tagliolini; la vertiginosa presunzione nascosta nell’idea di poter giudicare chiunque, e poter diffondere quel giudizio. Nonostante l’inferno, reale, che in migliaia associano alla parola bullismo.
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L’idea, per la verità, non è particolarmente nuova: già nel 2011 un sito come ExRated.co invitava gli utenti ad assegnare un valore alle proprie vecchie fiamme [...] Anche chi non è iscritto a Peeple potrà esserlo da chiunque lo vorrà giudicare; per farlo, per giunta, l’improvvisato giudice dovrà fornire alla app il vostro numero di cellulare - altro colpo alla privacy [...] In molti, poi, si chiedono poi cosa impedirebbe a Peeple di diventare il luogo ideale per le vendette degli ex, dei nemici che ci siamo fatti sul lavoro o a scuola, e dunque di molestie e forme di bullismo. Perfino i passanti interpellati nella serie di video promozionali diffusi da Cordray e McCullough su YouTube non sembrano convinti dell’idea ingenua per cui gli utenti non farebbero altro che cercare di trovare il meglio in ogni persona giudicata per esempio perché una coppia con un figlio vuole assicurarsi che il maestro, la babysitter o il padre del migliore amico siano davvero le brave persone che sembrano. Ma intanto la valutazione della app è già schizzata a 7,6 milioni di dollari, dopo una raccolta iniziale di 250 mila. La strada verso l’obiettivo dichiarato - quota un miliardo - è ancora lontana: e non è detto l’app sia in grado di sopravvivere alla serie di cause legali all’orizzonte, oltre che all’odio del pubblico. Ma su una cosa già si potrebbe riflettere: come mai una società che giudica già ogni cosa sul web, e che ha già ridotto a metrica, a “gioco”, ogni tipo di interazione umana, dovrebbe scandalizzarsi per quello che non è altro che il figlio illegittimo di un ménage à trois tra Facebook, LinkedIn e Tinder? [Fabio Chiusi, la Repubblica]