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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

L’incontro di Cornelio Rolandi, il superteste della strage di Piazza Fontana che non sapeva in che storia si fosse messo, e quella notte con la vedova Pinelli che non versò neanche una lacrima. Due articoli memorabili di Pansa, per i suoi 80 anni. Auguri

Il superteste di piazza Fontana “In che storia mi sono messo!”
«Lo vede? Lo vede come sono ridotto?». Il tassista Rolandi esce dal bagno, è appena stato male, malissimo. Pigiama e ciabatte, il volto terreo, gli occhi rossi e acquosi, la fronte tutta perline di gelido sudore: un uomo sfinito. «Non vivo più, non vivo più...». Va verso una poltrona, poi si abbandona ad un pianto improvviso: «Ho sempre in mente il fatto, la mattina che sono andato dai carabinieri, il viaggio a Roma, quando sono ritornato a casa...». Singhiozza, nasconde il viso in un asciugamano di spugna e scuote la grossa testa con rabbia: «Anche sul lavoro, e pensare che il nostro è un lavoro delicato, il cervello è sempre su quella cosa lì!».
«Quella cosa lì» è il riconoscimento di Pietro Valpreda. Quaranta giorni fa, Cornelio Rolandi lo ha indicato come «l’uomo con la borsa» condotto dal suo tassì accanto alla Banca dell’Agricoltura, il pomeriggio della strage. Quell’atto ha impresso una svolta alle indagini sugli attentati e ha fatto di Rolandi il testimone-chiave della più clamorosa inchiesta italiana del dopoguerra. Il nome e la faccia su tutti i giornali, i riflettori della tv, l’assedio dei cronisti, la celebrità. E con la celebrità, anche dell’altro: quell’«altro» che ha sempre reso dura, durissima, qualche volta terribile la vita di un superteste. 
Com’è questa vita, signor Rolandi? «È una vita che non l’auguro a nessuno», mormora mentre le lacrime scendono sul suo viso da boxeur buono. «Ho cominciato a pensare a quell’uomo sabato sera, quando ho visto le foto della valigia con la bomba. A letto mi sono messo a macchinare. “Cornelio – mi dicevo – sta tent che l’è quel là, stai attento che è proprio quello là...”. Ho continuato a pensarci, a pensarci, a pensarci. Non ho dormito per due notti. Vedevo la tivù e il mio cervello lavorava. “Ma lascia perdere, Cornelio – mi consigliava mia moglie Teresa – che magari non è lui...”. Ma io niente! La notte fra domenica e lunedì ero come un leone in gabbia, quasi quasi mi strappavo i capelli. Alle 4 e mezzo di mattina mi sono messo a piangere che ho svegliato tutti...». 
E poi? «Poi lei lo sa. Il mattino del lunedì mi sono deciso ad andare dai carabinieri. In via Valpetrosa ho mollato il tassì quasi di traverso sulla strada, sono entrato di corsa, ho sorpassato due piantoni e il primo maresciallo che ho trovato ci sono cascato addosso. “Che cos’ha?” mi ha chiesto. “Devo riferire qualcosa sull’attentato...”. Santo Dio! Un brigadiere si è subito messo a scrivere a mano quel che dicevo...». 
Sono le 10 di lunedì 15 dicembre, e adesso Rolandi, con oltre un mese dì esperienza sulle spalle, borbotta: «Non mi accorgevo dentro che storia mi ero messo!». (…)
 
 *
La vedova Pinelli “Il nostro incontro a lezione di esperanto”
«Signora Pinelli, io sono già stato da lei una notte, in dicembre. Suo marito Pino era caduto dal quarto piano della questura e stava morendo in un pronto soccorso. Eravamo in cinque. Lei ci parlava dalla porta come mi parla adesso: senza un tremito, senza un pianto...». «Io non piango: non piango in pubblico. I miei sentimenti sono soltanto miei». 
«Ma lei, quella notte, che cosa provava?». La signora Pinelli guarda la madre e la suocera, poi guarda me, e i suoi occhi sono di gelo: «Se le dicessi che provavo odio, lei capirebbe?». 
«Odio per chi?». «È inutile che glielo dica, come è inutile fare pianti o scene isteriche. È utile, piuttosto, fare dell’altro...». «Che cosa?». «Quello che stiamo facendo: la ricerca della verità». 
È dalla notte del 16 dicembre che la signora Licia sta cercando la verità. Come è morto suo marito, capofrenatore delle Ferrovie e piccolo esponente anarchico? E perché è morto? Suicidio, malore, delitto: sono state pensate tutte. C’è un’inchiesta, ma prima dell’inchiesta c’è una storia, con due protagonisti: un uomo giovane e sano che un giorno, d’improvviso, ha smesso di arrivare col suo motorino e la sua allegria in questo cortile periferico di via Preneste, fra tetre case popolari e alberelli stenti; e una donna di 39 anni con due bambine, che sta imparando la parte difficile di vedova del Pinelli, colui che con la sua fine oscura forse custodisce la chiave per risolvere il mistero del «venerdì di sangue». 
«Lei cerca la verità, signora. Vediamo quella su suo marito. Eccone un ritratto: un uomo attaccatissimo alla famiglia, ingenuo, entusiasta, distratto, trasandato. Era così?». «Forse. Ma per prima cosa direi che Pino era estroverso, generoso, buono. Ingenuo? Anche. Tutte le persone per lui erano ottime, doveva batterci la testa prima di capire. Ma soprattutto, ecco, era entusiasta. Se non lo fosse stato, diciassette anni fa, forse, non ci saremmo incontrati...». 
«Dove vi siete conosciuti?». «A lezione di esperanto, nel casello daziario di Porta Venezia. Io non l’ho mai imparato, ma lui era bravissimo. Aveva corrispondenza con esperantisti di tutto il mondo, e quando qualcuno capitava a Milano era felice. Credeva nella fratellanza universale. Diceva: se tutti gli uomini parlassero la stessa lingua, non ci sarebbero più guerre. E li portava a vedere la Scala, il Duomo». 
«Sapeva tutto sul Duomo – interrompe la madre del Pinelli – chi lo aveva fatto, e quando...». 

Lo stesso intatto entusiasmo bruciava nelle sue idee. «Un giorno – dice la signora Licia – si era vicini a Natale, tornò dalla Rinascente. Per me aveva una matita su cui era inciso: “Alla mamma più in gamba del mondo”. Lui, invece, si era regalato una targhetta di legno di tek con la scritta: “Io sono un anarchico”. L’aveva messa bene in mostra, lì, sulla libreria. Dopo un po’ di tempo mia madre aveva detto: “Ma che cosa c’entra questa targhetta? Non c’è mica solo il Pino in questa casa”. Lui aveva risposto ridendo: “Non sta bene? Così chi entra la vede, e tutti sanno come la penso”». (…)