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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

«Il nostro sogno continua solo che sarà 2.0». Parlano Federico Grom e Guido Martinetti. I due fondatori di Grom che hanno deciso di vendere il gelato made in Italy alla Unilever promettono che la qualità del prodotto non cambierà: «Se questa multinazionale ha comprato Grom è perché la considera una gemma rara e preziosa. Aumenteranno sia la produzione agricola che oggi facciamo nella nostra tenuta, sia i rapporti con i produttori locali italiani che ci forniscono le materie prime. Presto faremo anche il gelato confezionato». Una cosa però è certa: «Abbiamo più tranquillità economica, ma la passione del nostro lavoro non cambia certamente»

«Il nostro sogno continua. Solo che adesso sarà un sogno 2.0». Eccoli qua in jeans e maglione blu Federico Grom e Guido Martinetti, il primo che «non mi piace tanto il gelato, preferisco i sorbetti», e l’altro che invece «per la promozione alle medie mi feci regalare la gelatiera Simac, ero un mago della stracciatella». Due giovani imprenditori con una storia di grande fatica e grande successo che hanno appena annunciato la vendita del loro mitico gelato al colosso Unilever. E le prime reazioni che si levano dalla comunità di clienti, osservatori e semplici golosi hanno un gusto più amaro che dolce. 
Diciamolo subito, fa impressione vedere un altro simbolo della qualità italiana come Grom finire in mano a una multinazionale.
«Unilever è una grande multinazionale – è Grom a rispondere – non c’è dubbio. Ma tra le tante alternative che avevamo, alcune anche più redditizie per noi, questa ci è parsa la migliore. Le aziende sono fatte di persone e pensiamo che questo sia un buon matrimonio». 
Un matrimonio tra un gigante e un’azienda come la vostra che vuole mantenere un legame diretto con i produttori agricoli. È possibile?
«Il nostro sogno – dice Martinetti – è e resta quello di portare il gelato italiano nel mondo. Con Unilever accanto sarà più facile farlo perché ci forniranno strumenti finanziari e conoscenze tecniche. Tutto qui. Per il resto abbiamo garanzie di una volontà totale di gestire e migliorare per quanto possibile quanto facciamo già. Noi due rimaniamo amministratori delegati, come eravamo già; invece di fare il piano industriale con i nostri soci di minoranza, lo faremo con un unico socio». 
Ma il gelato di Grom cambierà?
«Assolutamente no. Se Unilever ha comprato Grom è perché la considera una gemma rara e preziosa. Avrà ogni interesse a proteggere e valorizzare questo gioiello, non certo a cambiarlo. Aumenteranno sia la produzione agricola che oggi facciamo nella nostra tenuta, sia i rapporti con i produttori locali italiani che ci forniscono le materie prime». 
Vendete per crescere, dite. Non potevate rimanere alle dimensioni attuali, con i vostri 67 negozi?
«No, lo sviluppo è necessario ed è anche parte del nostro Dna. Noi siamo davvero due imprenditori partiti da zero, con un negozietto di 25 metri quadri a Torino dodici anni fa, il prestito dei nostri genitori e quello della banca su un terzo dello stipendio. Portare un prodotto italiano come il gelato nel mondo è stato il nostro sogno. E adesso quel sogno si avvererà più facilmente».
Vuol dire che i vostri negozi diventeranno 167 invece di 67?
«Magari anche 267, sempre nel rispetto della qualità. Ma l’importante è anche che Unilever ci aiuterà in un altro sogno che abbiamo da anni, ossia quello di offrire la stessa qualità che abbiamo nei punti vendita anche in prodotti confezionati».
Grom al supermercato con il gelato in vaschetta? È una notizia.
«Forse non proprio al supermercato, ma comunque sarà un gelato che si potrà comprare in alcune catene dal 2017, sempre di qualità e gusto assolutamente italiani, da mettere nel freezer e mangiare quando si vuole. Pensiamo anche a prodotti come il ricoperto: si può fare con latte fresco di alta qualità, panna fresca, uovo biologico, vaniglia del Madagascar, zucchero di canna e ricoprirlo con il cioccolato di Domori che è il nostro fornitore. Non è impossibile, è solo questione di determinazione». 
Però la vostra Grom si aggiunge alla lista delle aziende italiane che vanno all’estero. Perché in Italia si cresce fino a un certo punto e poi non più? Ci sono fattori che ci penalizzano?
«Intanto il cuneo fiscale sul costo del lavoro: non è possibile che un ragazzo che fa coni e coppette a Torino ci costi di più di uno che fa lo stesso lavoro a Tokyo o New York. E poi un’azienda che reinveste gli utili, come noi abbiamo sempre fatto, dovrebbe avere un trattamento fiscale privilegiato. Infine tra la crisi finanziaria e le nuove regole di Basilea la rigidità del sistema bancario è aumentata e ha messo in difficoltà molte aziende». 
A quanto avete ceduto la vostra quota?
«Gli accordi prevedono che non venga comunicato e ci atteniamo a quanto deciso». 
Ma come, voi che siete l’azienda della trasparenza totale! Sappiamo tutto delle nocciole e dei pistacchi, ma non dei soldi?
«Siamo trasparenti, ma siamo anche un po’ sabaudi». 
Comunque da oggi siete uomini ufficialmente ricchi.
«Diciamo che abbiamo più tranquillità economica, ma la passione del nostro lavoro non cambia certamente».