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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

Le tre "C" di O.J. Simpson che hanno diviso gli Usa. Stiamo parlando di campione, coltelli e cadaveri. Un ex, una ex, un cameriere per caso. Accadde tutto quella notte di vent’anni fa che tenne l’America inchiodata davanti alla tv: due morti ammazzati: lei, con la gola tagliata, lui con 17 pugnalate. Sessant’anni in due. E Hollywood sullo sfondo. Perfetto anche il codice postale: Brentwood. Ma il processo del secolo fece capire che la giustizia era uscita dall’aula e finita su telecomando

O.J. vinse sulla letteratura, sul cinema, sulle serie tv. Divise e unì, più di Chandler ed Ellroy. Con le tre c (campione coltelli cadaveri) fece ascolti pazzeschi, meglio del SuperBowl. Anticipò tutta una serie di eroi con le mani sporche, di presunti innocenti da jet-set, di quelli che parcheggiano il lusso, oggi la Rolls, fuori dai fast food e vanno in rovina per pagare gli avvocati (10 milioni di dollari). Altro che belli e dannati, in abiti Armani. Venti anni fa c’era già tutto: un L.A. Confidential in versione sport sesso successo, che tenne l’America inchiodata davanti alla tv. Un ex, una ex, un cameriere per caso. Tutto in una notte: due morti ammazzati: lei, con la gola tagliata, lui con 17 pugnalate. Sessant’anni in due. E Hollywood sullo sfondo. Perfetto anche il codice postale: Brentwood. Donne bianche, uomini neri, razze e classi, l’alta e la bassa società, conflitti a letto, gelosie e coltelli. Quello del delitto, modello Stiletto, fu venduto da Ross Cutlery, per 81 dollari e 17 cents a Simpson in persona. «Affilatelo, per favore» fu la sua sola richiesta. Per questo lo chiamarono Il Processo del Secolo. Erano tutte celebrities: l’imputato, O.J. Simpson, ex runner back, star del football americano, attore in Una Pallottola Spuntata, ma anche in Cassandra Crossing (con la Loren che gli disse: «Vergognati di picchiare le donne»), gli avvocati, Robert Shapiro, legale del figlio di Marlon Brando, del cantante Rod Stewart, del comico Johnny Carson, spalleggiato da Alan Dershowitz, quello del caso von Bulow e di Mike Tyson, e Johnny Cochran, legale afroamericano, per una difesa politicamente corretta. Da New York arrivarono perfino gli scrittori (Dominik Dunne) a interpretare un dramma della gelosia subito travestito da guerra razziale pronto a incendiare i ghetti. Il nero ingiustamente accusato, e non uno qualsiasi, ma uno che aveva realizzato l’american dream, il poliziotto bianco troppo ariano e senza mandato di perquisizione, la società pronta a condannare le unioni miste. E tutto in una Los Angeles senza angeli, da too much money.
Poco importò che nella Chiesa Metodista Africana, tempio della comunità nera, salvato dal rogo della rivolta nel ‘92, il pastore Charles Murray dichiarasse :«Simpson non si è mai curato della nostra comunità, viveva tra i bianchi». E che O.J. prendesse lezione di dizione «per non sembrare un nero», giocasse a golf con il presidente Clinton, e insistesse nel dire che il suo ideale erano le «bianche californiane» e che lui pur di vivere nei quartieri alti avrebbe fatto di tutto, «anche scolorirsi». Non fregò a nessuno per la prima volta vedere in aula di tribunale (non c’era ancora True Detective) quelle foto: il collo reciso di Nicole Brown, da sinistra a destra, con la giugulare tagliata, la carotide squartata, le vertebre visibili in fondo alle ferite. Morta in un minuto, disse il medico legale, sgozzata, immobilizzata da un braccio sotto la gola, e Ronald Goldman, macellato come una bestia con quasi venti coltellate al petto, ma lui almeno aveva lottato. Né servì mostrare la complicità della polizia con il campione ricco e famoso. Fu svuotata la cassetta di sicurezza di Nicole: dentro c’erano foto del suo viso pieno di lividi, furono riascoltate le sue chiamate al 911, mentre urlava con due bimbi piccoli in casa che suo marito, idolo dell’America sportiva, stava per rifarlo, per picchiarla di nuovo, con una mazza da baseball come l’altra volta. Non una voce, ma pura disperazione: «È l’ottava volta che vi chiamo, inutilmente».
Aveva 47 anni Simpson. La sua vita non si fratturò. Fu Cochran a trovare il colpo legale e a tirarlo fuori da una cella di tre metri per due, alla L.A. County Jail, la prigione che aveva ospitato anche Shiran Shiran, il killer di Bob Kennedy, e Charles Manson, massacratore dell’attrice Sharon Tate. Gli diede un farmaco per ritenere i liquidi, un altro per gonfiarlo, gli ordinò di non pisciare, così la sua mano ingigantita non sarebbe entrata nel guanto ormai secco e rimpicciolito, che la difesa si era dimenticata per mesi al caldo. Ma forse non serviva, perchè la giuria (otto donne nere su 12) dopo nove mesi ci mise appena tre ore (con l’intermezzo di un pranzo cinese) a dire: not guilty. O.J. non era colpevole. I ghetti neri potevano brindare e darsi una calmata. Come disse un’onesta infermiera nella sua casa con inferriate e lucchetti a South Central: «È pericoloso uccidere i simboli, anche se sono violenti, prepotenti, assassini. Perché vorrebbe dire non aver più la possibilità di sognare». Con quel processo l’America nera provò a pareggiare i conti. «Abbiamo fatto la cosa giusta» disse la giurata di 24 anni che non riusciva a trovare lavoro, mentre quella di 37 anni al quale la polizia aveva arrestato ingiustamente un figlio solo perché aveva la stessa data di nascita e nome di un sospetto, annuiva. Simpson perse poi la causa civile, perse i soldi, perse tutto. Il risarcimento lo dissanguò: 8,5 milioni di dollari. Il Dream Team, lo staff dei suoi legali, gli succhiò il resto.
E l’America trovò come con Al Capone un altro modo per mandarlo in galera. Anche perchè lui nel 2007 tentò una rapina a mano armata nella suite del Palace Station di Las Vegas per recuperare suoi cimeli andati all’asta. Lo hanno condannato a trentatré anni (c’era anche il sequestro di persona). Ora è incarcerato a Lovelock, nel Nevada. È ingrassato, ingrigito, nessuno lo trova più molto attraente. Gli eroi sportivi continuano a picchiare le donne e la polizia i neri. Ma il processo del secolo fece capire che la giustizia era uscita dall’aula e finita su telecomando.